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PROMEMORIA PER NUOVI SINDACI

Con poche risorse e bisogni crescenti, l’efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche diventa la vera questione morale. Il rispetto del denaro dei contribuenti e la sua assoluta focalizzazione sui bisogni veri della gente sarebbero un grande punto di partenza per scoprire se i nuovi sindaci sono veramente tali. Mentre ci si lamenta dei pochi soldi nelle casse comunali, tante imprese dei comuni fanno cose lontanissime dai bisogni che gli enti locali sono chiamati a soddisfare. E se partissimo facendo un po’ di pulizia?

 

Bel mestiere quello del sindaco, ma anche un gran bella sfida per una serie di problemi. Dal taglio dei trasferimenti dal centro, alla autonomia fiscale ancora allo stato embrionale, alla crescita della domanda di servizi che proviene sia dagli immigrati, sia da una crisi che non se ne va. Poche risorse, tante richieste, tante aspettative soprattutto sui neo eletti. Si rischia una tempesta perfetta, e l’unico fattore veramente a loro favore è il tempo che i neo eletti hanno davanti a sé.
Mai come in questo periodo servono fantasia e rigore nella gestione delle risorse. Serve coraggio nel definire le aree di intervento e nell’abbandono delle aree non strategiche. Non è facile delimitare ciò che i comuni devono fare; forse è più facile cominciare a chiarire quello che non devono fare.

AZIONISTA PUBBLICO, MISSIONE DUBBIA

Uno dei temi chiave è la decisione rispetto alle numerose imprese pubbliche nelle quali comuni hanno partecipazioni (normalmente di controllo). Qualche volta con una mission pubblica chiara, ma altre volte per eredità di un passato che si deve avere il coraggio di mettere in discussione. Ricordando che tutto ha un costo, quanto meno un costo opportunità.
Il caso più ovvio è quello delle imprese in perdita, che tra le partecipate degli enti locali sono parecchie centinaia. Ad esempio, il comune di Milano da anni deve ripianare le perdite di Sogemi, che gestisce il mercato annonario, attività che in tante città viene demandata ad altri: per quali ragioni nel XXI secolo dovrebbe essere il comune a organizzare gli scambi tra privati in un mercato maturo? Si noti che tenere in piedi un’impresa che perde quasi tre milioni all’anno significa bruciare le risorse che potrebbero consentire di dare un asilo nido a qualche centinaio di bambini, le cui famiglie magari oggi devono ricorrere ai nonni o al privato. Sul sito del comune di Milano si dice che l’anno prossimo queste famiglie che si dovranno arrangiare saranno “solo” 899; se non si dovesse tenere in piedi un’impresa come quella, una gran parte di quei bambini sarebbero assistiti…
Ma anche tenere un’impresa che produce utile blocca comunque risorse ingenti. Si pensi semplicemente – giusto per rimanere a Milano, ma ragionamenti analoghi si possono fare altrove – alle azioni della Sea, società di gestione degli aeroporti milanesi. Un comune è il miglior gestore di queste imprese? A giudicare dalle passate e recenti disavventure di Malpensa lo si dubiterebbe. E si noti che la maggior parte degli aeroporti europei ha gestioni private, senza che questo crei problemi particolari: sicuramente non c’è bisogno di un contributo del comune per dare servizi aeroportuali a una città come Milano. E giustamente (anche se maldestramente) la passata amministrazione ha cercato di cedere quote di questa impresa per finanziare linee del metro di cui la città aveva sicuramente necessità.
Anche quando un’impresa è in utile, ci si deve comunque chiedere se abbia senso tenerla in mano pubblica. Ad esempio, le grandi utility energetiche (Milano, Roma e Torino) hanno svolto una funzione pubblica in un lontano passato, dando energia elettrica e gas alle città in una fase in cui gli investitori privati latitavano. Ma oggi? Quale è la ragione per tenere in mano pubblica imprese del genere? Le tariffe per i clienti finali sono fissate dall’Autorità per l’energia, le reti sono consolidate e i nuovi investimenti sono normalmente effettuati sulla base di incentivi economici fissati dalla stessa Autorità. Nella maggior parte dei casi, l’unica considerazione rilevante a riguardo è quella finanziaria. Conviene tenere un asset che rende ogni anno dividendi significativi, o è meglio monetizzare per effettuare altri investimenti? Una risposta “sempre giusta” non esiste, ma una risposta razionale dovrebbe analizzare i bisogni e i flussi finanziari dei comuni.

QUEL VIZIETTO DI CONTROLLARE TUTTO

Ci piacerebbe vedere i comuni ragionare in questi termini. E invece resta forte da parte loro la tentazione di tenere queste imprese per diventare dei soggetti di politica industriale, di indirizzare gli investimenti che comunque i privati effettuano (che so? Nel settore delle rinnovabili, come se i ricchi incentivi pubblici non riuscissero ad attirare denaro privato). Il problema è che al politico “medio” il controllo piace intrinsecamente. Piace poter controllare le assunzioni e la scelta dei fornitori. Piace poter incidere anche su quei processi, sui quali enti locali e regionali non hanno specifiche competenze. Il caso della Regione Sardegna, che da anni brucia decine di milioni di euro l’anno per mantenere meno di duemila posti di lavoro in imprese estrattive e industriali è eclatante. Soddisfare questa tentazione ha un costo per la collettività: quello che non si può fare perché le risorse del comune sono impegnate a fare altro.
La gestione del personale dell’Atac a Roma, recentemente e tristemente balzata agli onori della cronaca, o le vicende del sindaco di Palermo, che a quanto pare si faceva custodire la barca dal dipendente di una impresa pubblica locale, fanno venire voglia di reclamare la privatizzazione come risposta al malcostume. Non credo che privatizzare sempre e comunque sia sensato; la stessa dieta potrebbe non funzionare per tutti. Ma occorre una serena riflessione, aperta e senza pregiudizi sui confini opportuni tra pubblico e privato. Senza disperdere risorse, senza ideologie e preconcetti, per fare meglio quello che il comune deve fare.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

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La Grecia privatizza. Ma è la cura giusta?

  1. AM

    Condivido pienamente il contenuto dell’articolo. Vorrei aggiungere che, pur se la larghissima maggioranza dei comuni si trova in condizione di ristrettezze finanziarie che limitano gli interventi e impongono una razionalizzazione delle spese, vi sono alcuni fortunati comuni dove le seconde case rappresentano oltre il 90% delle abitazioni e le rendite catastali sono alte. In questi comuni sprechi e spese discutibili a vantaggio dei residenti e non di chi effettivamente paga l’ICI continuano.

  2. Alberto

    Condivido in gran parte le tesi dell’articolo. Con una precisazione: non si tratta di voler privatizzare sempre e comunque . Il punto è soprattutto di selezionare una classe dirigente adeguata. Le “politiche industriali” non sono di per sé negative ma lo diventano senz’altro se attuate da incompetenti o da persone che sono guidate da priorità diverse dallo sviluppo di lungo periodo – e purtroppo la gestione “pubblica” ci ha fornito molti esempi di questo tipo anche nella c.d. “seconda repubblica”.

  3. matteo

    Dal punto di vista teorico è tutto giusto e condivisibile, peccato che in Italia spesso il privato funzioni anche peggio del pubblico e tanti esempi di privatizzazione hanno registrato solo dei costi enormi a carico degli utenti. Trovo comunque molto azzeccato il rilievo sulla smania di controllo che affligge i politici (e aggiungerei i dirigenti pubblici in genere).

  4. umberto carneglia

    Gli sprechi nel settore pubblico centrale e periferico sono a mio avviso la principale emergenze nazionale, che la riforma Brunetta ( sostanzialmente fallita) non ha nemmeno scalfito. Gli elettori hanno mandato un chiaro segnale, premiando personaggi provenienti dalle professioni e non dagli apparati. Non voglio dire con questo che tutta la gestione pubblica sia inutile o inefficiente. Ci sono esempi virtuosi, ma se si analizzasse a fondo( a partire dagli appalti ! ) si troverebbero enormi margini di spreco, di clientelismo e di corruzione, che marmificano e degradano le gestioni tipicamente pubbliche e quelle semipubbliche, comprese quelle facenti capo ai Comuni ed agli enti territoriali in genere. La politica e la lottizzazione devono fare un passo indietro, per ridurre la spesa pubblica e quindi le tasse ed accrescere l’efficienza del sistema. I cittadini se ne sono accorti. A Napoli hanno votato in massa per il rigore della legalità contro gli apparati politici che hanno riempito le strade di immondizia. Cosa aspettano i politici di vario colore a cogliere il segnale, facendo un passo indietro invece di chiedere ministeri nella capitale dell’impresa privata?

  5. Rinaldo Sorgenti

    Ottima ed opportuna la riflessione di Carlo Scarpa, ma sorge spontaneo l’interrogativo se davvero la risposta degli elettori è stata chiara e se i neo-eletti davvero possano rappresentare un’apertura al mercato ed alle "liberalizzazioni"! Basta vedere cosa dicono e vorrebbero fare con la gestione della distribuzione (non proprietà) dell’acqua! Sarebbe logico che le attività pubbliche in perdita venissero prontamente offerte al mercato, mentre le società che offrono utili e prospettive di utili (necessari per l’Ente Pubblico per le sue funzioni di servizi collettivi), potrebbero comunque essere offerte al mercato ed alle capacità dei privati, cedendone il controllo ma conservando quote di capitale significative, così da beneficiare di eventuali gestioni più efficaci. Certo che pensare che per risolvere il principale problema dei rifiuti di Napoli ci volesse un ex-magistrato come De Magistris (che peraltro non vuole il termovalorizzatore), perchè andrà lui porta a porta ad insegnare e ritirare la munnezza, è davvero emblematico di quanta disinformazione e demagogia continui ad esserci sull’argomento e quanta speculazione dai soliti finti "ambientalisti".

  6. marcello

    Riguardo a questa frase: “Il caso della Regione Sardegna, che da anni brucia decine di milioni di euro l’anno per mantenere meno di duemila posti di lavoro in imprese estrattive e industriali è eclatante.” Si fa riferimento alla concessione di cassaintegrazione e mobilità di lavoratori di imprese a partecipazione regionale? grazie Cordiali Saluti, Marcello

    • La redazione

      No, si tratta delle "normali" perdite di bilancio (e le frequenti, conseguenti necessità di ricapitalizzare quando le perdite erodono il capitale). La cassa integrazione temo sia "on top"…

  7. Luciano Galbiati

    Il termine "liberalizzazione" assume, specialmente a sinistra, significati decisamente impropri. Quasi una nuova declinazione del concetto di "giustizia sociale" (con molti ripensamenti,per la verità). In realtà è un monumentale malinteso. La definizione più adatta di tale termine è la seguente: "deregolamentazione dei mercati e privatizzazione dei servizi pubblici". Mi domando (e domando ai lettori) quali mirabolanti benefici abbiano tratto lavoratori e consumatori dalla "liberalizzazione" della luce, del gas, delle assicurazioni, dell’acqua (dove operante), del welfare, ma soprattutto del mercato del lavoro. Nel migliore dei casi si è semplicemente trasformato un ente pubblico in Spa; nel peggiore si è trasferito un monopolio (o una posizione di rendita) dal pubblico ai privati. Per quanto riguarda il mercato del lavoro la "deregolamentazione" si è rivelata un clamoroso fallimento a danno dei lavoratori. Gli elettori chiedono (da tempo) alla politica azioni finalizzate alla ri-regolazione dei mercati, governo della globalizzazione e maggiore intervento dello stato (la consultazione referendaria si muove in questa direzione). Milano e Napoli non fanno eccezione.

  8. Pietro Spirito

    Liberalizzare si può e si deve. Serve però creare le condizioni per realizzare un processo di apertura al mercato che consenta di introdurre efficienza e reale contendibilità. L’introduzione di regole è indispensabile per evitare che la liberalizzazione, o ancora di più la privatizzazione, possa essere occasione per l’ennesimo pasto gratis per interessi privati a danno dell’interesse collettivo. Un quadro di assetto istituzionale coerente con scelte di liberalizzazione e privatizzazione è indispensabile. Diventa necessario accompagnare questi processi di regolazione con politiche di efficientamento delle aziende municipalizzate. Se non si riporta la razionalità economica nella gestione industriale, e’ poi oggettivamente difficile realizzare scelte di liberalizzazione e di privatizzazione. In presenza di aziende con forte perdita economica, è difficile immaginare di attrarre un interesse del mercato all’investimento ed alla gestione. Interventi di politica industriale finalizzati alla efficienza sono strumentali ed opportune per poi percorrere, assieme ad un assetto istituzionale di regolazione opportuno, il sentiero della liberalizzazione e della privatizzazione.

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