Lavoce.info

DONNE NEI CDA: ANCORA TUTTO IN FAMIGLIA*

In Italia la presenza femminile ai vertici delle imprese è ancora molto scarsa. In agosto, però, è entrata in vigore la legge che impone alle società quotate di riservare alle donne almeno un terzo delle posizioni in consiglio di amministrazione. Cosa dobbiamo aspettarci? Un’analisi sulle consigliere attuali suggerisce che è fondamentale una selezione attenta a competenze e qualità, piuttosto che ai legami con le imprese. E va associata a processi di formazione dei nuovi membri dei consigli. Ne potrebbero trarre benefici significativi soprattutto le società la cui governance non è ottimale.

Non è necessario ripetere come la presenza delle donne ai vertici delle imprese sia in Italia ancora molto scarsa. Nel settore privato tra gli occupati “giovani” (15-44 anni) la quota di dirigenti donna è del 25 per cento; tra quelli nella fascia di età 45-65 scende al 15 per cento. Ma le percentuali sono molto minori nelle posizioni apicali. Ciò è particolarmente rilevante, tra l’altro, per la scarsità di modelli di leadership femminili che vengono proposti a valle.

IMPLICITA O ESPLICITA È SEMPRE DISCRIMINAZIONE

Il tema è oggi particolarmente “caldo” perché ad agosto è entrata in vigore la legge 120/2011 che, analogamente ad altri paesi europei, impone alle società quotate di prevedere nel proprio statuto un riparto degli amministratori per cui il genere meno rappresentato ricopra almeno un terzo delle posizioni, a partire dai primi rinnovi dopo l’agosto2012. È uno strumento da molti considerato “distorsivo” perché impone alle società scelte che – se fossero state ottimali – non avrebbero richiesto l’imposizione: se avere più donne in cda è così vantaggioso, perché le imprese non l’hanno già fatto?
In realtà il meccanismo delle “quote” potrebbe essere uno strumento per correggere distorsioni “implicite” che oggi la letteratura comincia a riconoscere, per cui nei processi di selezione non completamente “anonimi” le donne risultano svantaggiate. Il lavoro di Claudia Goldin e Cecilia Rouse del 2000 sulle modalità di selezione dei componenti di alcune grandi orchestre statunitensi e quelli più recenti di natura sperimentale mostrano come nelle selezioni (sia pure basate sulla competenza dei soggetti intervistati) vi sia una “discriminazione implicita”, di cui gli stessi selezionatori non sono consapevoli, a svantaggio dei candidati donna. (1)
Ma quante e chi sono oggi le donne nei consigli di amministrazione delle società quotate italiane? E in quali società tendono a essere più presenti?
A giugno 2011 erano donne il 6,9 per cento del totale degli amministratori. Se la loro presenza dovesse continuare a crescere con il tasso medio degli ultimi anni, occorrerebbero oltre sessanta anni per raggiungere il 33 per cento imposto dalla legge.

Leggi anche:  Congedo parentale più generoso: la reazione di padri e madri*

             Fonte: elaborazioni su dati Consob.

Nel confronto internazionale siamo agli ultimi posti, anche se solamente i paesi che hanno introdotto quote di genere vedono una presenza consistente di donne nei consigli.

PROFILO DI DONNA IN CDA

Come si mostra in un recente lavoro, la maggioranza delle donne (47 per cento) non ha né un ruolo esecutivo, né da indipendente. (2) Il 76 per cento ha una laurea. Le caratteristiche – sia delle donne, sia delle società nei cui consigli siedono – risultano differenti a seconda che le consigliere siano o meno legate da parentela con il controllante della società. Le prime sono la maggioranza (presenti nel 47 per cento delle società), le seconde un po’ meno frequenti (nel 43 per cento; nelle restanti società sono presenti entrambe le tipologie).
A parità di altre condizioni, è più probabile che una donna che ha legami di parentela con il controllante (che in media è in possesso di una laurea con minore frequenza di una “indipendente”) sieda nel consiglio di società di minori dimensioni, attive nei comparti dei beni di consumo, in cui il consiglio è di maggiori dimensioni, dove la proprietà è più concentrata, ma anche dove tra gli azionisti figurano investitori istituzionali.
È invece più probabile che una donna non legata al controllante sieda in un consiglio in società quotate più di recente, quando il controllo non è di tipo familiare, ma fa capo a società estere o è a proprietà diffusa; in imprese che operano nei settori delle telecomunicazioni o dell’informatica; se il cda è di maggiori dimensioni, è mediamente più giovane, è composto da un numero più elevato di indipendenti.
Insomma, si tratta di due modelli molto diversi.
Alcuni tentativi preliminari di mettere in relazione tali presenze con semplici indicatori di “buon comportamento” del consiglio (la frequenza delle riunioni, la partecipazione dei consiglieri, la disciplina interna delle operazioni con parti correlate) forniscono indicazioni poco significative, sia perché il numero di donne è ancora contenuto, sia perché non è possibile stabilire nessi causali dato che le osservazioni si riferiscono a un solo anno.
Se rispetto alla frequenza e alla partecipazione, le società a consigli totalmente maschili sembrano fare meglio, le differenze risultano rilevanti soprattutto per quelle in cui le donne sono legate da parentela con il controllante. Potrebbero tuttavia essere determinate dalle maggiori dimensioni medie delle società con consigli maschili; non è poi ovvio se le donne siano selezionate dalle società a governance meno buona oppure se alla loro presenza sia associata una governance meno attenta.
Cosa aspettarci allora dall’introduzione delle quote? Ovviamente l’analisi contenuta nel lavoro non è sufficiente a trarre indicazioni univoche.
Suggerisce comunque che è fondamentale che il processo di selezione sia attento a competenze e qualità, piuttosto che ai legami con le imprese, e che sia associato ad attenti processi di formazione dei nuovi membri dei consigli (board induction). In questo caso è possibile che ne derivino benefici significativi soprattutto per le società la cui governance non è ottimale: è questo uno dei pochi risultati “solidi” della letteratura sugli effetti della presenza femminile nei cda. (3)
E poiché in Italia, nonostante i progressi, si può ancora molto migliorare sotto questo profilo, vale la pena di non perdere l’occasione. (4)

Leggi anche:  Nascite: è il lavoro delle donne a fare la differenza

* Banca d’Italia. Le opinioni non coinvolgono in alcun modo l’Istituto di appartenenza.

(1) Rispettivamente, C. Goldin, C. Rouse (2000); “Orchestrating impartially: the Impact of Blind Auditions on Female Musicians”, American Economic Review, Sept. 715-741. Le autrici mostrano come la percentuale di donne selezionate per le orchestre sia cresciuta in misura significativa dopo l’introduzione di un sistema di audizioni “al buio”, ossia svolte dietro una tenda che nascondeva l’identità del candidato. E R. Reuben, P. Sapienza, L. Zingales (2011); “Glass ceiling in experimental markets”, mimeo.
(2) M. Bianco, A. Ciavarella, R. Signoretti (2011), “Women on boards in Italy”, Quaderno di Finanza n. 70, Consob.
(3) R. Adams, D. Ferreira (2009), “Women in the boardroom and their impact on governance and performance”, Journal of Financial Economics.
(4) Si veda Assonime (2011), Analisi dello stato di attuazione del Codice di autodisciplina delle società quotate, Roma.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Sulla parità di genere l'Italia va piano e poco lontano

Precedente

PERCHÉ L’ITALIA NON CRESCE

Successivo

IL PATRIOTTISMO ECONOMICO È UN’ALTRA COSA

  1. Felice Di Maro

    Nel bel mezzo dei problemi cruciali ecco che il tema della partecipazione delle donne ai ruoli alti delle aziende si ripropone come quando dopo la pioggia, e ormai solo in certi boschi, spuntano funghi ma bisogna stare attenti che possono essere velenosi. L’Autrice di certo ne è consapevole e argomenta che le “competenze” dovrebbero essere la nuova bussola. Purtroppo l’articolo è triste perché chi scrive sa che proprio le “competenze” non sono e non saranno altro che un motivo senza peso. Suggerisco una unità d’azione di azione tra donne e uomini a favore delle “competenze”.

  2. Claudio Della Ratta

    Auspico un maggior coinvolgimento femminile nei vari CDA, ma sono contrario ad imposizioni di sorta. Sembra siano tutti concordi nel sostenere un ampliamento imposto delle quote rosa. In questo modo però non si considerano le donne al pari degli uomini e non si fa altro che evidenziare “la loro diversità”. Per molti, ma a quanto vedo tra questi non figurano i politici, la parità di genere è già raggiunta a prescindere, perché intrinseca nel proprio modo di vedere le cose, e non sarà certo qualche poltrona in più assegnata per legge alle donne che le eleverà, per coloro che ne sentono ancora la necessità, alla discussa parità. I posti di vertice (e non solo) vanno assegnati per merito ed in base alle specifiche competenze e non antidemocraticamente per legge Diverso è l’aspetto del doveroso riconoscimento del ruolo socio educativo delle donne, che è completamente assente nella nostra società. Su questo, che riguarda tutte le donne e non solo quelle “in carriera”, si dovrebbero concentrare gli sforzi e non su inique assegnazioni di genere.

  3. Gabriella Bettiol

    Purtroppo “ancora e sempre dati sconsolanti” per quanto riguarda la partecipazione delle donne nelle posizione di vertice delle aziende! Ma che dire quando anche notissime società di supporto all’innovazione alle imprese si presentano con tavoli composti da 30 persone tutti rigorosamente maschi con completo grigio o blu! Solo contraddizioni visive o anche di contenuto??

  4. Luigi Sandon

    È interessante vedere come tutta l’attenzione sia spostata verso i CdA e le cosiddette “posizioni apicali”, cioè le posizioni molto ambite e profumatamente pagate. Ovviamente le posizioni inferiori sono meno interessanti e meno pagate, quindi possono essere ignorate. Ci si chiede pertanto come si possano “formare” questi membri di CdA, in particolare in aziende dove per vari motivi gran parte del personale è (troppo) spesso maschile, basti pensare a buona parte all’IT in Italia (esclusi ovviamente i ruoli come HR o amministrativi). Con che esperienza e competenze questi “membri imposti per legge” sono in grado di apportare vero valore ai CdA? O sì è fatta la solita legge solo per affermare un principio ed avvantagiare qualche amico, ooops, amica?

  5. AM

    Se entrano solo le mogli e le figlie non vi è garanzia di un reale cambiamento.

  6. Cinzia Tomasello

    Il mio vuole solo essere un commento in qualità di donna. Cogliamo il positivo che è che comunque qualcosa cambierà. Ritengo che ci sia infatti una differenza di genere da far emergere. Noi donne siamo mediamente più lungimiranti e spesso seguiamo la logica del buon senso. Staremo a vedere. Dipende sola da noi.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén