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COME RIFORMARE L’ASSISTENZA IN TEMPO DI CRISI*

Anche in un periodo di crisi e tenendo conto delle esigue risorse disponibili, si può riformare l’assistenza sociale, in modo da garantire efficacia ed equità. Purché non si persegua solo il contenimento della spesa pubblica. La proposta dell’Irs prevede il decentramento di funzioni e risorse alle istituzioni del territorio. Tra le misure, un sostegno monetario alle famiglie con figli complementare a politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e cura; l’introduzione di un reddito minimo di attivazione per il contrasto alla povertà e una dote di cura per anziani non autosufficienti.

Il percorso avviato dalla legge quadro sull’assistenza sociale (328/2000) non è mai stato completato. Il settore attende da tempo una riforma, che non può certo venire dalla legge delega in discussione in parlamento (Ddl C. 4566), finalizzata al solo contenimento della spesa pubblica e non a riqualificare le politiche e i servizi.
Su iniziativa dell’Iris, un gruppo di esperti di varie discipline ha elaborato una proposta di riforma dell’assistenza “vera, attuale, fattibile”, che mira a conseguire più appropriatezza, efficacia ed equità, e che possa al tempo stesso essere avviata nel quadro, angusto, delle risorse oggi disponibili. (1)

LO STATO DELL’ASSISTENZA

Il primo passo è ricostruire i confini attuali del campo socio assistenziale: una spesa complessiva pari a 62 miliardi, quasi 4 punti del Pil, le cui componenti sono indicate nella tabella 1. Una spesa di cui sono ben noti i limiti: interventi e politiche settoriali, categoriali, frammentati e poco efficaci; netta prevalenza di programmi governati dal centro (86 per cento della spesa complessiva); e di prestazioni monetarie (circa il 90 per cento) senza controlli sul loro utilizzo; servizi pochi e mal distribuiti sul territorio; mediocri effetti distributivi e selettività incoerente.
Il secondo passo è definire gli obiettivi della riforma:
– per l’efficacia del sistema occorre trattare in modo appropriato e adeguato le singole situazioni di fragilità e bisogno. Questo può essere fatto solo sul campo. Funzioni e risorse vanno quindi decentrate alle istituzioni del territorio, Regioni e comuni, come vuole la Costituzione, sostituendo le tradizionali misure gestite dall’Inps;
– per l’equità del sistema, in una situazione di risorse molto scarse, è necessario  adottare come criterio generale per l’individuazione dei beneficiari, o meglio per la differenziazione fra beneficiari a titolo gratuito e beneficiari chiamati a concorrere alla copertura dei costi, l’universalismo selettivo.
– tale operazione comporta sacrifici e rischi e necessita quindi di rassicurazioni e tutele per le persone e di linee di difesa contro tentativi di riduzione delle attuali risorse destinate all’assistenza, perpetrati a qualsiasi livello istituzionale, di cui la legge delega sull’assistenza è un chiaro esempio. Può essere effettuata quindi solo se contestualmente si definiscono i livelli essenziali delle prestazioni, in termini di diritti di cittadinanza e di standard dei servizi.
Il piano di finanziamento della riforma prende le mosse dalla scarsa efficacia redistributiva della attuale spesa assistenziale. Alla metà più ricca delle famiglie affluisce il 34 per cento degli assegni familiari e il 24 per cento delle pensioni e degli assegni sociali, misure di integrazione del reddito finanziate dalla fiscalità generale e condizionate in vario modo alla situazione economica dei beneficiari. Se si azzerasse la spesa pubblica per pensione e assegno sociale con riferimento ai decili di reddito familiare equivalente superiori alla mediana (pari a oltre 19mila euro annui di redito equivalente e a quasi 31mila di reddito disponibile non equivalente, scala Ocse modificata), si libererebbero risorse per quasi 2 miliardi di euro; se si considerasse nel computo anche il 34 per cento della spesa per assegni al nucleo familiare attualmente percepita dalla metà più ricca di famiglie, si recupererebbero altri 1,7 miliardi di euro. Si verrebbe così a disporre di circa 3,7 miliardi di euro. Se si trattassero allo stesso modo le integrazioni al minimo, per le quali non si dispone della distribuzione per decili di reddito e si deve quindi ricorrere a stime anche grossolane, si potrebbero recuperare risorse per aggiuntivi 3 miliardi di euro. (2) Una revisione dei criteri di accesso così orientata, che utilizzi una Isee riformata, di cui si tracciano gli indirizzi, può liberare risorse che, unite a quelle già messe in campo da comuni e Regioni, possono finanziare le nuove forme di intervento sul territorio, totalmente sostitutive delle attuali erogazioni monetarie centralizzate.

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LE PROPOSTE

La proposta viene declinata per alcuni principali target.
Per il sostegno monetario alle famiglie con figli si dovranno sostituire le attuali prestazioni con un assegno alle famiglie con minori, non categoriale ma universale, selettivo sulla condizione economica. L’assegno è complementare all’incremento della offerta decentrata di servizi, a politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e cura e per la casa, che possono risultare più efficaci sia in termini redistributivi e di contrasto alla povertà, che di sostegno alle responsabilità familiari. La razionalizzazione dei trasferimenti alle famiglie, in forma di detrazioni fiscali e assegni al nucleo, può liberare circa 3 miliardi di euro rispetto agli attuali, per potenziare asili nidi e scuole materne e per concorrere ad integrare i redditi delle famiglie più povere.
Per le politiche di contrasto alla povertà si propone l’introduzione di un “reddito minimo di attivazione”, misura universalistica che contempla sia integrazioni economiche alle famiglie che servizi di inserimento. Attraverso l’unificazione degli istituti attuali e l’attuazione dell’universalismo selettivo si stima che si possano liberare 5,7 miliardi, 4 miliardi per l’integrazione ai redditi (stima Cies), il resto per lo sviluppo dei servizi territoriali per l’accesso e l’accompagnamento delle famiglie per inserimento e promozione sociale.
Per gli anziani non autosufficienti si propone di sostituire l’indennità di accompagnamento con una “dote di cura” che preveda fasce distinte in base a livello di gravità e a condizione economica dell’anziano (e in parte della sua famiglia); possibilità di scelta fra la soluzione cash e la soluzione care; gestione regionale e locale, senza alcun aggravio per la finanza pubblica. La riforma può essere effettuata senza ulteriori risorse rispetto a quelle attuali dell’indennità di accompagnamento (13,2 mld di euro), mentre risorse aggiuntive sono necessarie per potenziare la rete dei servizi (domiciliari, residenziali e territoriali). Si prevede anche di defiscalizzare gli oneri per le badanti per la regolarizzazione dei contratti e la qualificazione del lavoro professionale
Le riforme delineate comportano esclusivamente redistribuzioni interne alle diverse aree, o tra le diverse aree delle politiche sociali. Fa eccezione la politica per la non autosufficienza, per la quale si prevede di gravare le pensioni di un modesto prelievo che assicuri al singolo contribuente e a tutti gli anziani, al verificarsi della non autosufficienza, servizi più adeguati.
Naturalmente, la attuazione della riforma proposta implica delicati problemi di consenso e di equità che comportano una transizione graduale che non determini gravi contraccolpi sul tenore di vita delle persone e delle famiglie, ma che comunque affermi come prioritari criteri di uguaglianza di trattamento a fronte di condizioni di fragilità personale e familiare o di onerosità di carichi assistenziali.
Nel loro insieme le proposte avanzate implicano un forte sviluppo dei servizi sociali destinando a tale obiettivo una significativa quota dei 54 miliardi di euro ora assorbiti dai trasferimenti monetari gestiti dall’Inps e che dovranno passare a Regioni e comuni.
Lo sviluppo dei servizi crea occupazione, posti di lavoro, in particolare per le donne, e ad esempio con la dote di cura determina anche l’emersione di lavoro informale. La riforma proposta va quindi vista non solo come innovazione dell’assistenza, ma anche come politica occupazionale di sviluppo.

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Tabella 1: La spesa per l’assistenza nel 2010. Classificazione tipo Commissione Onofri (milioni di euro)

(1) Il gruppo che ha redatto la proposta è stato coordinato da Emanuele Ranci Ortigosa (Pss, Irs) e composto da Paolo Bosi e Maria Cecilia Guerra (Capp, Università di Modena e Reggio Emilia), Francesco Longo (Cergas, Università Bocconi), Valerio Onida (Presidente emerito della Corte Costituzionale), Alberto Zanardi (Università di Bologna), e dai ricercatori dell’’Istituto per la ricerca sociale, Ugo De Ambrogio, Daniela Mesini, Sergio Pasquinelli, Manuela Samek, Stefania Stea. Il testo integrale è pubblicato su Prospettive Sociali e Sanitarie, 2011, n. 20/21.
(2) Analisi circa gli effetti non adeguatamente redistributivi anche di più recenti misure (social card, bonus famiglia, bonus elettrico) sono contenute in Cies, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, 2010.

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ISTITUTI DI CREDITO: QUI CI VUOLE CAPITALE FRESCO

  1. donata lenzi

    Con la massima stima per il proponente e conoscendo la proposta dell’Irs nel suo complesso una correzione e una nota. la correzione: la delega fiscale non è stata approvata. Nel mese della crisi è rimasta ferma nelle commissioni finanze e affari sociali, probabilmente si riprende a gennaio comunque nel frattempo la parte Isee è entrata nella manovra. la nota. universalismo selettivo o welfare residuale? Se la soglia dei 31000 euro di reddito è quella per l’accesso alla assistenza (assegni famigliri, indennità di accompagnamento etc..) tagliamo in realtà fuori il ceto medio e lo mettiamo a rischio impoverimento. Il welfare è in fondo l’ombrello che impedisce alle famiglie di impoveririsi per far fronte alla malattia e ala vecchiaia.

  2. ermes zanoli

    Condivido il commento della Lenzi, l’importo limite è troppo basso. Mi piacerebbe che i dotti economisti sempre con la pallottola in canna contro le disfunzioni immorali del nostro sistema si levassero a favore del “quoziente familiare” cominciassero a martellare contro la immorale discriminazone e penalizzazione delle famiglie monoreddito. Inoltre una domanda “il lavoro sociale delle casalinghe” non è mai nei vostri pensieri, sono invisibili, inutili… per noi la pensione non esiste, esiste solo l’obbligo dell’assicurazione! Le lacrime da coccodrillo della Fornero non si rivolgono verso noi casalinghe? Mai……

  3. Giulia Ghezzi

    Concordo complessivamente con l’impostazione della riforma, in particolare laddove si considera il sostegno monetario alle famiglie con figli non più come un diritto che spetta solo ai lavoratori ma come un diritto legato alla situazione economica familiare. Si elimina il paradosso che il disoccupato, oltre a non avere lo stipendio, non ha neppure diritto all’assegno familiare. Mi permetto però due sottolineature: innanzitutto, occorre chiarire chi si deve occupare di gestire l’assistenza a livello comunale. Se, come io credo, la figura professionale indicata è l’assistente sociale, occorre prevederne e regolarne per legge la presenza all’interno dell’ente locale. Secondariamente, non dimentichiamo l’importanza delle politiche attive del lavoro per evitare lo scivolamento di soggetti “normodotati” nel circuito assistenziale. Ad oggi non sono previsti servizi in grado di favorire la riqualificazione e il collocamento di soggetti che non invalidi civili e questo fa sì che, nonostante la crisi, restino scoperti posti di lavoro pur in presenza di disoccupati adatti per quel ruolo.

  4. marco

    E’ bello vedere che non sono l’unico a pensare che la situazione si possa migliorare non solo investendo soldi in più, ma liberando risorse da reinvestire, con la forza delle idee. Condivido il principio generale cioè che le possibilità di accedere al welfare debbano essere commisurate alla ricchezza personale e famigliare come le tasse; però penso che sarebbe molto sbagliato mettere delle soglie rigide; tutti dovrebbero percepire qualcosa in modo progressivo utilizzando un sistema di aliquote crescente estremamente equo e bilanciato. Giusto spostare l’ago dela bilancia verso gli enti territoriali che vanno responsabilizzati sempre di più.

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