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RAI: RIPARTIRE DAI CONTENUTI

La crisi della Rai è più profonda di quello che appare all’esterno e non basta nominare manager capaci e sganciati dai partiti per farla ripartire. Il taglio di circa 250 milioni al bilancio ha sottratto risorse anche agli investimenti su prodotto e contenuti. Ma è proprio su qualità e innovazione che si gioca il futuro della Rai. Perché la competizione per un editore televisivo, soprattutto se di servizio pubblico, è oggi più che mai sui contenuti e sulla loro capacità di essere attraenti, convenienti e accessibili in ogni momento, in ogni luogo e su ogni apparato e piattaforma.

I riflettori riaccesi negli ultimi giorni sulla Rai si sono focalizzati soprattutto sull’aspetto della governance. A questa viene ricollegata anche l’altra questione della sostenibilità economica e degli accorgimenti contabili (raggiungimento dell’utile nell’ultimo anno), che consentirebbero all’azienda di servizio pubblico di evitare il commissariamento.

LA SVOLTA DEL DIGITALE

Non si tratta di questione secondaria, ma a me pare che cambiare la governance della Rai, in favore di una maggiore autonomia dai partiti, pur se auspicabile, non sia dirimente. È vero che un governo tecnico ha maggiori spazi di manovra di maggioranze elettorali che hanno sempre avuto una concezione proprietaria della Rai (situazione a cui l’azienda peraltro si è sempre adeguata con grande flessibilità e senza troppi problemi), ma è altrettanto chiaro che la crisi della Rai è ancor più profonda di quello che appare all’esterno e non è sufficiente mettere manager capaci e sganciati dai partiti, sempre che ciò sia possibile nel contesto italiano, per far ripartire “la più importante industria culturale del paese”.
Partiamo dai numeri. Se consideriamo le risorse che affluiscono direttamente al sistema televisivo nazionale –  canone, pubblicità, abbonamenti e servizi a richiesta finanziati dall’utente finale – nel 2003, anno di nascita di Sky Italia, a seguito della fusione di Stream e Telepiù, avevamo ancora sostanzialmente un duopolio, con Rai e Mediaset che si spartivano equamente l’80 per cento della torta complessiva. Due anni dopo la situazione cambia, un terzo operatore si affaccia prepotentemente sul mercato, a tassi di crescita 4-5 volte superiori agli ormai ex-duopolisti (abbonamenti vs pubblicità). È alla fine di quell’anno che Mediaset, per far fronte alla crescente competizione della pay Tv satellitare, opera una scelta strategica destinata a modificare profondamente il panorama televisivo italiano: l’ingresso nella Tv a pagamento, usando il digitale terrestre come volano per la diffusione dei nuovi servizi. 

Da un punto di vista strategico dunque la scelta “tecnologica” di Mediaset in favore del digitale terrestre si giustifica e si spiega alla luce della competizione nel settore della Tv a pagamento. Ciò comporta un rischio, che nel tempo si rivelerà forse superiore al vantaggio, di maggiore segmentazione dell’offerta, nel contesto digitale, con una forte riduzione degli ascolti (e in misura minore dei ricavi) da parte dei canali analogici generalisti. Per limitare questo rischio e disincentivare potenziali concorrenti, Mediaset spinge sul controllo delle reti di accesso, acquisendo ulteriori frequenze e torri da un lato, e dall’altro sul lancio di nuovi canali tematici (Boing, Iris, e altri), con i quali recuperare parte degli ascolti persi dalle reti generaliste. In questo modo ripropone anche nel contesto digitale il modello classico di integrazione verticale dominante nell’analogico, attraverso il controllo di tutte le componenti chiave della catena del valore, dalla produzione/distribuzione dei contenuti, alla rete di accesso (terrestre), al rapporto con l’utente. Un modello quasi obbligato nell’analogico, ma che il digitale, attraverso la moltiplicazione dell’offerta, tende a dis-integrare, in quanto più costoso, e dunque economicamente sostenibile solo con risorse aggiuntive.
Da parte della Rai, invece, comprensibilmente assente nel segmento a pagamento, c’è stata solo l’assunzione di un rischio, che ha portato come risultato un significativo ridimensionamento in termini economici e di quote di mercato. Peraltro si potrebbe obiettare che un servizio pubblico debba garantire il massimo impegno nel favorire e promuovere la digitalizzazione del paese. A ciò si può aggiungere che il terrestre è il terreno naturale dove un broadcaster pubblico free, che offre servizi in gran parte finanziati dal canone, deve operare.
Ma d’altro canto, per le stesse ragioni, un servizio pubblico non può che essere universale, e dunque anche multi-piattaforma, perché deve raggiungere tutti i cittadini in qualunque modo abbiano accesso alla televisione: in termine tecnico si parla di must carry come di un obbligo di tutte le piattaforme, in Europa e non solo, di offrire i canali di servizio pubblico, ai quali corrisponde un analogo obbligo di must offer da parte delle emittenti pubbliche. In questo senso, decisioni come l’uscita di Raisat dal pacchetto Sky (50 milioni l’anno mai recuperati con la pubblicità in questi anni) e le tante schermaglie con l’operatore pay satellitare in termini di accessibilità ai suoi programmi non trovano alcuna giustificazione economica convincente e tantomeno si possono ricollegare alla sua missione di servizio pubblico.
Ma ancora più importante è considerare il risultato che la digitalizzazione ha provocato sulla Rai. Centinaia di milioni di euro di costi irrecuperabili di switch (su Rai, a differenza di Mediaset, il digitale terrestre opera un semplice effetto sostituzione e neppure totalmente compensativo rispetto all’analogico, per le ragioni sopra esposte), in assenza di incrementi reali del canone, così come avvenuto in altri paesi (ricordiamo anche che il canone Rai è tra i più bassi in Europa). Un portafoglio di canali (tredici) a dir poco ridondante, doppio rispetto alla media degli altri servizi pubblici europei e difficilmente giustificabile in termini di segmentazione e di target di pubblico, determina costi elevati che portano ascolti anche significativi (sino al 6 per cento nelle aree all digital) ma non adeguati al numero dei canali e ancor meno alle risorse pubblicitarie che dovrebbero finanziarli. Il tutto in un contesto generale di grande crisi economica e di forte riduzione delle risorse pubblicitarie sui tre principali canali generalisti ex analogici.

TAGLIO DEI COSTI SENZA INVESTIMENTI

È vero che gli ultimi vertici hanno operato significativamente sui costi, tagliando circa 250 milioni dal 2007 al 2011 (fonte Il Sole-24Ore), ma in un mercato caratterizzato da costi crescenti come quello dell’industria creativa e dei talenti quale è quello televisivo (attori, registi, star televisive, grandi firme giornalistiche, alcune delle quali peraltro lasciate colpevolmente partire indipendentemente da qualunque ragionevole criterio economico), tutto ciò ha forse sottratto risorse importanti per investimenti sul prodotto e sui contenuti che in fin dei conti dovrebbero caratterizzare un’azienda come la Rai.
È allora proprio da queste nozioni fondamentali, forse troppo frettolosamente messe nel cassetto, e riconsiderando criticamente il recente passato, che la Rai deve ripartire. Oggi la sfida si sposta dalla dimensione nazionale a quella globale, internet rappresenta un elemento di discontinuità di gran lunga più drammatico per i broadcaster di quello rappresentato dalla tv digitale. Modelli di disintermediazione come quelli espressi dai social media si affermano, insieme a nuovi attori (aggregatori, i cosiddetti over the top) che mettono in crisi gli equilibri consolidati non solo nelle telecomunicazioni ma anche nei media, tentando di sostituirsi agli editori tradizionali nel rapporto con l’utente finale.
La competizione per un editore televisivo, ancor più se di servizio pubblico, è oggi più che mai sui contenuti e sulla loro capacità di essere attraenti, convenienti e accessibili in ogni momento, in ogni luogo e su ogni apparato e piattaforma. Questo significa abbandonare battaglie di retroguardia che non hanno più senso economico ed estranee alla missione di servizio pubblico, quale l’integrazione verticale, puntando sulla qualità del prodotto e l’innovazione dei servizi sui vari devices (pc, smartphone, tablet, connected tv, eccetera). Su questa partita, della creatività e della qualità, e non su altre volte a creare giardini chiusi e ostacoli all’accesso, dove sono state consumate troppe energie e risorse, si gioca adesso il futuro della Rai.

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MA L’ENTRATA È ANCORA REGOLAMENTATA

  1. ospite

    Nominare dei manager capaci e sganciati dalla politica non è la panacea di tutti i mali, ma intanto è un buon inizio. Così evitiamo di vedere oscurate delle notizie o delle trasmissioni che piacciono ai cittadini ma non a chi li rappresenta. E poi mi dite in tutta onestà che differenza c’è oggi fra la Rai e un’altra qualsiasi TV privata? Stessi programmi spazzatura (reality e compagnia bella), poca qualità e tanta pubblicità. E perchè, di grazia, la Rai mi chiede anche di pagare il canone? Per pagare oltre 500.000 euro la signora Lorenza Lei che non mi sembra stia facendo miracoli? E si aumenta pure lo stipendio? Certo, se la compariamo a chi c’era prima è già grasso che cola, però non possiamo andare avanti pensando “c’è di peggio”. Vorrei poter dire “c’è di meglio” e ce l’abbiamo noi. In Italia.

  2. Marco La Colla

    L’articolo è molto interessante,ma si è dimenticato di ricordare che la crisi della Rai si è verificata mentre il mister B. era presidente del consiglio. Certe scelte suicide dell’azienda hanno favorito Mediaset nella sua raccolta pubblicitaria e credo di essere in buona compagnia nel ritenere che siano state suggerite dall’entourage di mister B. La soluzione ai problemi della Rai sarebbe quella di combattere con forza l’evasione del canone. Come mai non si è messa in atto il prelievo forzoso del canone sulla bolletta della luce di cui si era molto parlato? Forse che mister B. non era d’accordo? Il conflitto d’interessi ha fatto si che l’azienda sia stata tenuta in grado di non nuocere, che il suo telegiornale più seguito fosse affidato ad uno yes man che gli ha fatto perdere in breve tempo la supremazia che aveva da anni, che personaggi come Santoro, Dandini, Travaglio siano stati costretti ad emigrare in reti marginali dal punto di vista pubblicitario. Il riscatto Rai potrebbe aversi col governo Monti, anche se mi rendo conto che esiste un limite a ciò che mister B. gli può consentire di fare.

  3. Anonimo

    L’importante  è che il servizio sia pubblico e quindi un bene non tassabile in funzione dei ricavi a termine (marginal-futures) e, il canone sia un prezzo di aggiustamento rispetto agli altri beni questavolta di natura privata in compensazione dei rendimenti decrescenti, a salvaguardia delle domande dei consumatori.

  4. marco

    La Rai è stata oppressa da 20 anni di conflitto di interessi e di Berlusconismo schifoso; secondo voi che interesse può avere un presidente del consiglio che possiede l’altra azienda del duopolio ad elevare e migliorare il servizio pubblico? L’unico suo interesse sarà quello di controllarne la propaganda per volgerla ovviamente a proprio favore ede essere rieletto; adesso sarebbe il momento di fare una legge sul conflitto di interessi e di staccare semplicemente la RAI dai partiti per renderla indipendente copiando ad esempio il modello della BBC; fondando la nuova azienda sulla concorrenza, sullla qualità, sulla trasparenza e sulla meritocrazia si riprenderebbe subito…E’ così difficile da realizzarsi?

  5. AM

    Mi irrita rilevare nei giornali TV RAI non infrequenti errori di geografia e la pronunzia scorretta dei cognomi. Si usa ad es. la pronunzia inglese nel leggere cognomi tedeschi, romeni e di altre lingue dell’Europa del nord e dell’est. Fra gli errori di geografia ricordo 3 perle: il Vorarlberg definito cittdina del Tirolo, Megève, località turistica svizzera e Aulla, città dell’Emilia-Romagna.

  6. piero de chiara

    Proseguendo nel ragionamento di Preta sugli investimenti in contenuti distribuiti verso tutti i device, si incontra una domanda inevitabile.Che cosa è un servizio pubblico e come si misura quanto rende al paese? L’uso di quasi due miliardi di risorse fiscali all’anno in un paese che spende poco per la cultura, impone di definire una missione misurabile, con indicatori di performance. A mio avviso le missioni sono almeno due. La prima è la produzione di programmi diversi da quelli che il privato ha comunque incentivi sufficienti a produrre. Ha ragione chi dice che la programmazione Rai non corrisponde a questa missione. La seconda, meno classica ma ineludibile in epoca internet, è l’utilità del servizio pubblico per i diversi segmenti (pubblici e privati) dell’industria culturale nazionale. E qui la Rai è ancora più indietro. Chiedere a produttori di cinema, di documentari, di musica, cartoni ecc. Chiedere ai gestori delle reti di comunicazione che vorrebbero mettere on line programmi e archivi Ma è rischioso affidarsi a un cupio dissolvi o alla favola di una disintermediazione neutra affidata a Google o Apple. Per quanti torti abbia la Rai, da lì conviene ripartire

  7. fernando bruno

    In estrema e sommaria sintesi. Sono d’accordo con il punto di vista dell’articolo (premesse, analisi, conclusioni). Aggiungo che non va però sottovalutato il problema della governance(criteri di selezione e di nomina del board, riparto di competenze tra board eDG, riorganizzazione aziendale). Per completezza, ed in coerenza con le tesi di preta, direi che occorre riprendere la riflessione sull’abbandono dell’attività di operatore di rete. La dismissione di torri e frequenze (beninteso, in un contesto favorevole di complessivo riassetto del sistema tv nella direzione del superamento del modello dell’integrazione verticale, di specializzazione nelle diverse mission di tower company e content providers, in una parola il modello francese…) mi sembra un obiettivo di medio termine su cui tornare a riflettere. Infine un mio vecchio pallino: fidelizzare gli abbonati e trovare forme di “clubizzazione” degli utenti anche in funzione antievasione (la card degli abbonati?). Da ultimo, una provocazione. Ad una Rai con programmi commerciali e di servizio pubblico effettivamente, logicamente e percepibilmente separati, perché dovrebbe essere inibito l’ingresso alla tv pay?

  8. Filippo Terzaghi

    Bella e chiara analisi. Inoltre il mancato adeguamento al nuovo contesto dell’offerta comporta anche la perdita del’audience giovanile, che sempre più è alla ricerca di prodotti “on demand”, disponibili su piattaforme come il web (con il conseguente calo degli investitori pubblicitari con target giovanili). Già in vari Paesi il mercato pubblicitario sul web ha oltrepassato quello della TV generalista (per non parlare dell’aumento della quota radiofonica.

  9. michele

    il canone RAI sarà pure il più basso d’Europa, ma avete pensato a quanta pubblicità e sponsor devono sorbirsi gli italiani? non abbiamo un canale pubblico interamente senza pubblicità, come hanno nel Regno Unito o in Germania. Da pochi mesi col passaggi al digitale terrestre si è iniziato a vedere una programmazione da servizio pubblico, dove teatro classico, opera e concerti non sono più un evento raro. Per non parlare della copertura, stabilità e della qualità del segnale, delle soluzioni a risparmio di banda nel digitale terrestre nell’affitto di trasponder sul satellite. Canale 5 ha la più alta risoluzione video nel DTT, e Sky è ineguagliato per il satellite.

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