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LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A LEONE E TORRICE

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Ringraziamo la Dr. Margherita Leone e la Dr. Amelia Torrice per il loro importante contributo al dibattito originato dal nostri articoli su Lavoce.info e sul Corriere.  Stiamo imparando moltissimo da questo dibattito grazie ai magistrati che vi stanno partecipando, dedicandovi tempo prezioso. Siamo molto grati a loro e speriamo che questo dibattito possa essere loro utile come lo è a noi economisti. Certamente non per avere l’ultima parola, ma solo per continuare questa fertile interazione interdisciplinare, proponiamo le riflessioni che il commento di Leone e Torrice ci hanno suggerito.

RIDURRE LE VARIBILITÀ

Ridurre la variabilità dei tempi di decisione dei giudici di una stessa sede attraverso la concentrazione del processo e una migliore organizzazione dell’agenda delle udienze, è l’obiettivo primario delle sperimentazioni (alle quali Andrea Ichino lavora insieme a Nicola Persico e Decio Coviello) iniziate presso la Corte d’Appello e il Tribunale di Roma grazie all’eccezionale impegno e disponibilità a mettersi in gioco di alcuni magistrati romani, tra cui in particolare le Dr. Leone e Torrice.  La durata media dei processi di un ufficio, infatti si può ridurre soprattutto diminuendo le durate di maggiore entità dei singoli magistrati. Quindi, in questo caso, ridurre la variabilità significa anche ridurre la durata media dei processi. In qualsiasi campo dell’attività umana individui diversi si comportano in modi diversi. Perché allora porre il problema per i giudici? Normalmente, è difficile misurare quanto della variabilità osservata nei risultati dipenda dalla variabilità dei comportamenti individuali o dalla variabilità dei compiti a assegnati agli individui. Nel caso dei giudici di una stessa sede, però, i processi sono essenzialmente assegnati a sorte proprio per assicurare il rispetto dell’articolo 25 della Costituzione. Per la Legge dei Grandi Numeri, questo implica che gli insiemi di casi assegnati a giudici diversi siano “simili”, ma non nel senso che “di notte tutti i gatti sono neri”.
Supponiamo di avere un processo “Testa” e un processo “Croce” e di assegnarne il primo a Ichino e il secondo a Pinotti: essi quindi dovranno lavorare su processi diversi tra loro, che potrebbero evidentemente originare, in modo del tutto giustificato, tempi di decisione ineguali.  Supponiamo invece di avere 100 processi ciascuno dei quali possa essere – con pari probabilità – di tipo “Testa” o di tipo “Croce”. Se ne assegnamo “a caso” 50 a Ichino e 50 a Pinotti, ciascuno di loro avrà circa 25 processi “Testa” e 25 processi “Croce”. Quindi, anche se i processi continuano ad essere distinti in due categorie (i gatti possono essere bianchi o neri), Ichino e Pinotti hanno complessivamente una quantità e qualità di lavoro comparabili. Se i loro tempi di decisione differiscono, il motivo non può essere il carico di lavoro, ma solo il loro modo di lavorare. Nulla cambia in questo ragionamento se i processi, invece di essere “monete a due facce” sono “dadi a 6, 12, 24 o N facce”.
Dal punto di vista del cittadino che va in giudizio, questa situazione genera una variabilità casuale di risultati analoga a quella del paziente che venga assegnato a caso al medico di un pronto soccorso o a quella dello studente che non possa scegliere il docente da cui imparare.  Qualsiasi organizzazione, però mira a ridurre queste variabilità, proprio perché costose per il cittadino, se il cittadino non può scegliere da chi farsi servire.
Come già detto, le sperimentazioni in corso a Roma hanno proprio come obiettivo di ridurre la variabilità nei tempi cercando di trovare, insieme ai giudici, i modi organizzativi più efficaci per diminuire soprattutto le durate più lunghe, dato ovviamente non si può comprimere ciò che invece è già ai minimi possibili.
Per quel che riguarda invece la variabilità delle decisioni, le Dr. Leone e Torrice ci ricordano che i magistrati già mettono in campo strategie finalizzate alla “formazione di orientamenti comuni, condivisi” e che comunque la Cassazione (seppure in tempi ancor più lunghi) dovrebbe assicurare l’uniformità dei risultati finali a parità di fattispecie. Ne prendiamo atto: ecco un esempio di quello che anche noi stiamo imparando da questa eccezionale interazione tra discipline.

IL PROBLEMA DELL’OGGETIVITÀ

Ma, almeno per quel che riguarda i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, esiste anche un altro modo di risolvere il problema. Ed è quello di non ricorrere al magistrato per queste controversie e di istituire, invece, un filtro automatico, costituito da un costo per l’impresa pari alla perdita futura la cui previsione si ritiene possa giustificare il licenziamento, lasciando al giudice il solo controllo – questo si davvero insostituibile – circa l’eventuale motivo occulto discriminatorio o comunque illecito. La valutazione dell’esistenza di un giustificato motivo oggettivo è paradossalmente … molto soggettiva, e certamente non dipendente da sofisticate valutazioni di tipo giuridico, dato che la legge non dice proprio nulla su che cosa sia un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ossia non dice: “se la perdita attesa dall’impresa per la prosecuzione del singolo rapporto è X allora il licenziamento è giustificato, mentre se è meno di X è ingiustificato”. La perdita X sarà giudicata sufficiente per il licenziamento da qualche giudice e insufficiente da altri (per non dire della ineliminabile aleatorietà di qualsiasi “accertamento” – che in realtà sarebbe una valutazione “prognostica”,  avente per oggetto un evento futuro: la perdita attesa, appunto).
In questi casi quindi, la variabilità di decisioni è inevitabile, essendo dovuta all’oggetto stesso della decisione. Almeno per questi casi ci sembra che valga la pena di riflettere sull’opportunità di sostituire il ricorso al giudice con altri strumenti, come quelli peraltro in uso normalmente in altri paesi: i cosiddetti “Severeance payments”. Ossia trasferimenti monetari, elevati a discrezione del legislatore, che l’impresa deve effettuare a vantaggio del lavoratore per poter sciogliere il rapporto evitando una controversia giudiziale.
Non siamo sicuri che questo metodo sia preferibile, ma suggeriamo ai magistrati e al legislatore che, almeno per i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa essere preso in seria considerazione come ipotesi da valutare. Se non altro perché così accade in molti altri Paesi. E nella valutazione circa i pro e i contro di questa soluzione rispetto alla disciplina attuale della materia ci sembra che sia indispensabile l’evidenza fornita da ricerche come quella resa possibile dalla disponibilità dei dati sul funzionamento degli uffici giudiziari.

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RIMASTI IN FONDO AL BURRONE

  1. Luigi Calabrone

    Agli italiani non serve uno stato basato su buoni principi se gli stessi non si concretizzano in decisioni tempestive ed eseguibili. Gli antenati riuscirono a organizzare buoni acquedotti, fogne, sistema giuridico: il diritto romano. Vengono ricordati come gente civile. Noi abbiamo scritto una Costituzione che inorgoglisce gli addetti ai lavori; abbiamo, in penale, le galere piene di gente che aspetta di essere giudicata, ammassata in condizioni disumane, e, in civile, sei milioni di procedimenti arretrati. La nostra immagine, all’estero, è pessima. Il servizio della Giustizia che serve inizia dalla Costituzione e finisce con la notifica delle sentenze. Tutti i tentativi fatti per portare il servizio a concretezza, anche mediante misurazione dei tempi e ottimizzazione delle risorse, riduzione degli sprechi, eccetera, vanno visti con favore. Vani sono gli strilli di taluni degli addetti ai lavori a difesa delle astrazioni del diritto. Il diritto è quello che viene concretamente applicato, alla fine di ogni procedimento giudiziario; se arriva quando le parti non ne hanno più interesse o finisce in prescrizione, il servizio della Giustizia è, sostanzialmente, negato.

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