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ENERGIA RINNOVABILE: OLTRE IL COSTO DEGLI INCENTIVI

I due decreti che ridefiniscono il sistema degli incentivi alle rinnovabili elettriche sono nati sotto una cattiva stella: bocciati dalla Commissione europea, poi approvati con modifiche dalla Conferenza Stato-Regioni. Vedremo ora cosa succederà in Parlamento. Ma parlare ancora dell’eccessivo costo degli incentivi e dell’onere per le bollette degli italiani significa mettersi in un’ottica molto ristretta. Mentre dovrebbe essere ferma la volontà di rendere il sistema progressivamente meno dipendente dalle fonti fossili e dagli approvvigionamenti dall’estero.

Lo schema che riforma gli incentivi alle fonti rinnovabili di energia è nato sotto una cattiva stella. A marzo 2011, l’allora ministro Romani annunciava una revisione degli incentivi che sarebbero stati ridotti per tutti i nuovi impianti collegati alla rete dopo il 31 maggio dello stesso anno. Da quella data sarebbero entrate in vigore le nuove tariffazioni, che il governo si riservava di definire entro aprile.

L’ITER DEI DECRETI

Da quel momento, si è scatenata una ridda di ipotesi sull’entità dei tagli e sulle modalità del nuovo regime per fotovoltaico e per le altre fonti dando fiato a un dibattito che non si è affievolito fino all’annuncio dei nuovi decreti attuativi. Tra indiscrezioni di ogni genere la discussione pubblica ha battuto soprattutto sull’eccessivo onere per la bolletta delle famiglie italiane, già provate duramente dalla crisi e dagli inasprimenti fiscali del governo. Un dibattito che ha avuto due difetti: ha contribuito a oscurare, inconsapevolmente o meno, i benefici della scelta di incentivazione che risale al 2007, e ha trascurato del tutto il fatto che gli addetti ai lavori erano consapevoli dell’eccessiva generosità dei sussidi e sapevano benissimo che nella nuova edizione sarebbero stati ridotti (vedi figura 1). La preoccupazione e gli interrogativi riguardavano soprattutto le modalità del nuovo schema, nel timore di incappare in un meccanismo mal congegnato come il precedente. Alla fine, l’11 aprile scorso sono stati varati due schemi di decreti ministeriali che ridefiniscono il sistema degli incentivi destinati al fotovoltaico (quinto Conto energia) e alle altre rinnovabili elettriche (idroelettrico, geotermico, eolico, biomasse, biogas). Il sistema entrerà in vigore, per il fotovoltaico al superamento della soglia di 6 miliardi di euro di incentivi (previsto tra luglio e ottobre prossimi) e, per le altre fonti, il 1° gennaio 2013.
In un ritrovato dirigismo degno dei tempi del monopolio statale sull’energia, motivando la cosa con l’intento di non farsi sfuggire di mano i numeri e quindi i costi dell’incentivazione, il governo ha affiancato agli incentivi ridotti un meccanismo di registri anche per taglie di impianto limitatissime (3kW per il fotovoltaico) che secondo gli esperti e l’industria tutta metterebbe in ginocchio l’intero sistema. Nel crescendo delle proteste i decreti sono incappati nella clamorosa bocciatura della Commissione europea per essere poi approvati, ma con modifiche dalla Conferenza Stato-Regioni. Vedremo ora cosa succederà in Parlamento. Pare tuttavia che il beneficio dell’incentivo rischi di essere annullato dagli oneri associati al nuovo sistema: un meccanismo alternativo di riduzione automatica delle tariffe al superamento di scaglioni di potenze prefissate (meno 2 per cento di tariffa per il fotovoltaico ogni 150MW installati, per esempio) porterebbe agli stessi effetti dei registri, il mercato si autoregolerebbe, ci sarebbe meno burocrazia. Insomma più regolazione, meno dirigismo. Strano che un concetto simile non sia stato concepito dai tecnici di un ministero tecnico.

QUANTO PESANO GLI INCENTIVI

Se questi sono stati i fatti fino a oggi, se i veri temi del dibattito, quello alto, sono il futuro energetico del paese, il sistema elettrico del futuro, gli obiettivi europei del 2020 e oltre, viene da chiedersi che senso ha parlare “ancora” dell’eccessivo costo degli incentivi all’energia rinnovabile e dell’onere per le bollette degli italiani, con tutto il rispetto per le difficoltà che sono ormai di tutti. Forse non ci sarà un disegno dietro, certo è che l’ottica adottata è grandemente ristretta.
Circa la bolletta vale la pena cogliere l’occasione per qualche precisazione. Dal 2002 al 2012 la spesa annua delle famiglie per l’elettricità secondo l’Aeeg è aumentata del 52,5 per cento. La voce “energia e approvvigionamento”, essenzialmente il costo del gas che peraltro importiamo, è aumentata del 177,2 per cento. Questa voce era il 31 per cento dell’intera spesa nel 2002, è il 55 per cento nel 2012. Se è vero che gli incentivi alle rinnovabili le pagano gli italiani, gli stessi italiani pagano molto, molto di più il gas d’importazione necessario per l’elettricità che utilizzano ed è un onere che in valore monetario è cresciuto nel tempo più di tutti gli altri. Un calcolo indica che a maggio 2012, la spesa per le fonti rinnovabili era di circa 67 euro contro circa 294 di energia e approvvigionamento: il 13 per cento contro il 55 er cento (vedi tabella). Le imposte, pari a circa 68 euro, pesavano per il 13,5 per cento (vedi figura 2). E allora? E allora bisogna ricordare, per esempio, che la funzione di questa componente di costo è precisamente quella di ridurre dinamicamente la componente di costo riferibile al gas. Il quale, non va dimenticato, deve essere importato: quanto pesa e che costo ha la dipendenza energetica del nostro paese dall’estero pari al 97 per cento secondo chi scrive che lo sviluppo delle fonti autoctone di energia è troppo oneroso? Per pagare tutta l’energia che l’Italia deve importare ogni anno ci mangiamo l’avanzo del settore manifatturiero: chi è contrario ad accelerare e rendere irreversibile il processo di liberazione da questo tipo di schiavitù?
Vi sono poi un paio di aspetti circa il ruolo dello Stato su cui vale la pena richiamare l’attenzione. Gli incentivi li pagano gli italiani, ma lo Stato non è arbitro imparziale: siccome anche gli incentivi sono tassati, più alti sono, più alte le entrate fiscali. Non si capisce perché un’imposta sul valore aggiunto debba gravare su un incentivo. Senza la tassazione, la bolletta sarebbe un poco più leggera. Ma c’è di più: secondo i nuovi decreti, i soggetti beneficiari degli incentivi dovranno corrispondere 0,1-0,2 euro per ogni kWh al Gse, il Gestore dei servizi energetici, società interamente controllata dal ministero dell’Economia e Finanza: si tratta di una somma stimata in 75-80 milioni di euro per il 2013, in crescita negli anni successivi, che affluirà a una società pubblica che nel 2011 ha beneficiato l’azionista con un utile netto di 19 milioni. Il contributo andrà ad alleggerire la componente A3 della bolletta elettrica che già copre i costi di funzionamento del Gse. Il quale svolge funzioni essenziali, ma le cui operazioni sono direttamente finanziate dai cittadini e dalle imprese, anziché dallo Stato. In pratica noi paghiamo gli incentivi, ma anche la loro gestione, una gestione attiva i cui frutti se li prende lo Stato. Singolare.

PUNTARE ALLA DECARBONIZZAZIONE

Ciò premesso, che senso ha allora parlare “ancora” dell’eccessivo costo degli incentivi all’energia rinnovabile? Il fatto è che il problema non è più questo, visto che siamo in vista della “grid parity” per il fotovoltaico, momento in cui gli incentivi cesseranno di avere una giustificazione economica, e saranno azzerati. Il problema è che l’industria a quel punto dovrà essere in grado di camminare con le proprie gambe, dopo avere smaltito la “bolla fotovoltaica”, e crescere cercando sbocchi anche sui mercati esteri. Ed è un’industria largamente nazionale. E qui va detto che la preoccupazione di alcuni di avere esportato gli incentivi non appare giustificata: come nota Arturo Lorenzoni dello Iefe-Bocconi, la filiera è lunga e la parte “downstream” di installazione, gestione e integrazione degli impianti rappresenta il 60-70 per cento del costo dell’investimento, mentre il mercato della manutenzione vale oggi 500 milioni di euro. (1) Sempre stando sull’estero va poi aggiunto che il continuo raffronto con gli altri paesi europei in materia di incentivi, Germania compresa, ha una validità che non è assoluta: il mix energetico e il mix elettrico dei paesi europei è grandemente diverso e gli obiettivi stessi fissati dall’Europa non sono uniformi. (2)
Certamente, molto resta da fare in materia di energia, rinnovabile e non. Anzitutto il governo sembra continuare a dimenticare il grande tema delle rinnovabili termiche e di quelle per i trasporti: è urgente regolamentare questa materia, non si può perdere altro tempo. Esistono infatti precisi impegni e obiettivi da raggiungere su questi fronti già dal 2020. Due esempi: il biogas, anche come mezzo per ridurre il rischio di conseguenze avverse dovute alle “emergenze freddo” come quella del febbraio scorso; il biometano-biodiesel-bioetanolo, come mezzo non certo risolutivo ma utile e necessario per ridurre la dipendenza da petrolio d’importazione del settore dei trasporti. Nel primo caso è da capire quanto costerebbe varare i provvedimenti di integrazione nella rete gli impianti di biogas, eventualmente incentivandoli, rispetto al costo di nuovi rigassificatori e nuovi tubi; nel secondo caso viene da chiedersi se l’industria nazionale dell’auto non potrebbe dimostrare la stessa creatività nel settore dei biocarburanti mostrata nel recente accordo Fiat-Apl. (3)
In fin dei conti ciò che è soprattutto necessario è che il governo, attraverso l’indicazione di una nuova Strategia energetica nazionale, esprima in modo manifesto e fermo la volontà di rendere il sistema progressivamente meno dipendente dalle fonti fossili, generatrici di gas-serra, e dagli approvvigionamenti dall’estero. Ciò passa attraverso la riduzione progressiva del peso della generazione termoelettrica, il cui ruolo prospetticamente sarà quello di supporto alle fonti rinnovabili intermittenti; ciò passa attraverso la consapevolezza di una progressiva riduzione dei consumi energetici, elettrici e non, in virtù delle misure di efficienza energetica, al di là delle flessioni congiunturali; ciò passa attraverso una modifica radicale della struttura produttiva dei mercati energetici, con una crescente frammentazione della produzione e una diversificazione dei grandi operatori tradizionali; ciò passa attraverso un riordino organico degli schemi di tassazione e incentivazione delle varie fonti energetiche e attraverso la consapevolezza dei costi imposti dalla radicale trasformazione del sistema energetico, che saranno sostenibili anche grazie ai benefici che verranno prodotti; ciò non passa infine attraverso la costruzione di nuove centrali termoelettriche così come non passa attraverso la ricerca di nuovi idrocarburi sul territorio nazionale.
Tutto questo si colloca nel quadro di un processo storico di crescente decarbonizzazione delle economie non solo europee, coniugato con un progressivo abbandono del nucleare (Germania, Svizzera, Italia, Belgio, Bulgaria, parzialmente Giappone e Francia), che solo pochi fingono di non vedere come irreversibile.
Per gestire tutto a livello continentale è prossima la nomina di un Alto commissario che coordini le azioni di promozione delle rinnovabili. In questo ambito, quale pro-memoria per il futuro primo ministro incaricato, riteniamo sia giunto il momento di unificare la materia energetica e del clima in un portafoglio separato seguendo l’esempio del Regno Unito con il Department of Energy and Climate Change (Decc) istituito nel 2008 e della Francia con il ministère de l’Ecologie, du Développement Durable et de l’Energie sotto la presidenza Hollande appena iniziata. Un suggerimento che avevamo già avanzato da questo sito in tempi non (o meno) sospetti.

Figura 1 

Fonte: Gianni Simoni, “Sole in bilico”, Qualenergia n.2, aprile-maggio 2012


Figura 2

Fonte: AEEG, Cs aggiornamento 2 trimestre 2012

Fonte: Legambiente, “La verità sulle bollette elettriche”

(1) Si veda allegato 
(2) http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/documenti/20120411-DM-Rinnovabili_vPresentata2.pdf
(3) Fiat: Usa la Supercard!

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  1. Roberto

    Il problema non è solamente il costo, sia diretto che quello indiretto dovuto agli impianti per la produzione di energia elettrica per sopperire alla produzione nelle ore in cui i fotovoltaici non sono produttivi. Manca completamente il bilancio della CO2 prodotta per produrre, trasportare e montare il fotovoltaico e l’adeguamento della rete elettrica ai problemi di produzione di energia elettrica distribuita in piccoli o medi impianti comparato con quello di grossi impianti termici. Non possiamo permetterci di guardare solamente una parte del problema.

  2. Roberto Boniforti

    La tesi sostenuta nell’articolo ricorda quella dei sindacalisti, quando affermavano che il salario è una variabile indipendente.

  3. marco

    Lo Stato ha un altro grosso conflitto d’interessi- detiene la maggioranza delle azioni Enel! Come fa uno Stato che è dentro l’economia a stabilire imparzialmente le norme che dovrebbero regolare il mercato e le gare d’appalto!Ogni opera ha dei costi ambientali che vanno tenuti in considerazione;se calcoliamo i costi ambientali dell’installazione dei panneli fotovoltaici dobbiamo allo stesso modo dobbiamo calcolare i costi e i rischi ambientali altissimi della costruzione delle centrali termoelettriche- Le materie fossili continueranno ad aumentare di prezzo mentre le fonti rinnovabili permetteranno di produrre energia a costi sempre più bassi -Le centrali termoelettriche hanno una bassa efficienza energetica, allora è molto più saggio puntare sulla cogenerazione per riempire i vuoti delle rinnovabili-l’energia geotermica è già conveniente senza incentivi e si potrebbero già costruire tanti piccoli impianti a bassa entalpia a ciclo binario scarsamente inquinanti (l’opposto di quello che fa Enel)!-Ci vuole maggiore responsabilità verso i nostri bambini che hanno diritto a vivere in un mondo pulito meno cancerogeno e più rispettoso dell’ambiente.

  4. Bruno Cipolla

    Carlo Rubbia, premio nobel, affermava ancora vent’anni fa che per ogni lira spesa per combustibili fossili se ne spendeva un’altra per la salute dei cittadini. Questo è dovuto all’inquinamento provocato dalla combustione. Per esempio è ufficiale da pochi giorni (OMS) che il particolato prodotto dai motori diesel (e ovviamente anche quello delle centrali termoelettriche) è cancerogeno. Quando si calcolano i costi è buona norma tenere conto di tutti i costi, diretti e indiretti, economici e non. E ora un po’ di domande retoriche. Quanto particolato produce un campo fotovoltaico? Quanto particolato produce uno scaldacqua solare? Quanto impatta negativamente la bilancia commerciale l’importazione di una TEP (42 Gigajoule) fossile? Quanto impatta negativamente la bilancia commerciale (installazione esclusa) la produzione di 42 Gigajoule (11000 KWh) da fonti alternative? Quanti posti di lavoro produce importare petrolio? Quanti produrre energia nazionale?

  5. alsarago58

    Perché non dare a imprenditori o gestori di aziende su cui pesano molto i costi energetici, la possibilità di poter stipulare direttamente contratti con fornitori di energia rinnovabile incentivata (e quindi a basso costo come prezzo del kWh), anche se non sono a contatto diretto con loro? In pratica i gestori di impianti a rinnovabili, potrebbero fare come Hera o Sorgenia, che fanno contratti di fornitura elettrica, anche se le loro centrali non sono certo a contatto diretto con il cliente. Se una fornitura diretta da tanti privati alle aziende, fosse troppo complessa da organizzare, allora si potrebbero utilizzare i 20 TWh che il Gse accumula dai vari produttori da rinnovabili (ritiro dedicato e Ssp) e poi vende in borsa. Il Gse potrebbe fornire “virtualmente” alle aziende che ne hanno bisogno, operando come una delle già citate aziende di intermediazione elettrica, vendendo a chi ne ha bisogno l’energia che ha acquistato e incentivato, senza ulteriori ricarichi. Così l’elettricità incentivata a basso costo non finirebbe nel calderone della rete, ma solo alle aziende che ne hanno bisogno e i 6 miliardi annui spesi dagli italiani per le rinnovabili, avrebbero molto più senso.

  6. Laura Parmigiani

    Includere la Francia nel campo “anti-nucleare” mi pare eccessivo. Il fatto che la presidenza Hollande chiuda Fessenheim durante il suo quinquennio non ridurrà in modo drastico la parte del nucleare nella produzione elettrica francese (attualmente intorno al 75%). Tra l’altro, la sua lista mostra che la maggioranza dei paesi europei, soprattutto all’est, sono favorevoli al nucleare come tecnologia low carbon e giustamente come possibilità di diversificazione delle fonti di energetiche. La Francia fa ancora parte di questo campo pro nucleare. Non si può permettere di mettere a rischio 500 000 impieghi nel settore.

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