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Sanità: nuovo Patto, vecchi standard

Firmato il Patto per la salute per il 2014-2016. La sanità è stata esclusa dalla spending review, ma ciò non significa che non si debba cercare di razionalizzarne la spesa. Perché è necessario passare al criterio del costo standard per malattia. Anche se le Regioni preferiscono l’auto-revisione.

IL PATTO 2014-2016

Dopo due anni di gestazione, è stato firmato, tra Stato e Regioni, il Patto per la salute 2014-16. È un concentrato di impegni e di obblighi, che in 29 articoli affronta tutti i temi sul tappeto, dal finanziamento, ai livelli essenziali di assistenza (Lea), ai dispositivi medici, alle unità complesse di cure primarie (una grande promessa di cambiamento). Concentriamoci solo sull’articolo 1, gli aspetto macro-economici e i costi standard.
Dopo un triennio, il finanziamento del sistema sanitario nazionale – o meglio, le disponibilità finanziarie, che potrebbero anche variare, secondo gli obiettivi di finanza pubblica, precisa l’emendamento del ministero dell’Economia – aumenta di 8,4 miliardi di euro, da 109,9 nel 2014 a 115,4 miliardi nel 2016. Il precedente Patto 2010-12, nel pieno della crisi, aveva dato solo 4,4 miliardi di euro in più, per poi tagliare 1 miliardo nel 2013. A chi andranno queste risorse aggiuntive del fondo sanitario? Ai pazienti per la loro cura – che hanno sempre più bisogno di nuovi farmaci, tempi di attesa più brevi, tecnologie innovative e ticket meno onerosi – o ai medici e ai dipendenti del Ssn, che hanno il contratto o la convenzione bloccati da quattro-cinque anni? Medici più felici per il rinnovo del contratto saranno anche più tempestivi, efficienti ed efficaci nel curare i pazienti?
La sanità è un’isola felice nel mare agitato del Patto di stabilità. Finora non ha subito sostanziali decurtazioni, come ha riconosciuto la stessa Corte dei conti nella propria Relazione. Non solo non contribuisce al Patto di stabilità, come fanno gli enti locali e le Regioni, ma crea nuovi deficit: nell’ultimo quinquennio sono stati 10,7 miliardi. Fortunatamente si sono dimezzati dai 23,4 miliardi del quinquennio 2004-09. Merito soprattutto delle Regioni sotto piani di rientro, a dimostrazione che inefficienze e sprechi si possono tagliare.

RISPARMI POSSIBILI

La sanità è anche l’unico settore della pubblica amministrazione sottratto alla verifica della spending review del commissario di governo. Le Regioni sono riuscite a far valere il principio della auto-revisione della spesa e del mantenimento dei risparmi “nelle disponibilità delle singole Regioni per finalità sanitarie” (articolo 1 del Patto). Non esiste una quantificazione dei possibili risparmi, ma il presidente del Veneto Zaia ha più volte ribadito che si potrebbero risparmiare 30 miliardi di euro in cinque-sei anni, vale a dire 5-6 miliardi di euro all’anno. Bene, che si certifichi allora quali sono i risparmi realmente conseguiti, anno per anno, e che dal 2014 non si crei più un centesimo di deficit. Sotto il pretesto del diritto costituzionale alla salute si è fatto passare il principio della inviolabilità della spesa sanitaria. Nella sanità (privata) americana diversi autori hanno stimato che si nascondono sprechi per il 25-30 per cento della spesa (800 miliardi di dollari). La sanità italiana è più parsimoniosa, ma è giunto il tempo di aggredire gli sprechi, partendo dal mitico costo della siringa, che dev’essere uguale in tutta Italia.
Il costo della siringa è il più clamoroso fraintendimento (da parte dei politici) del principio dei costi standard in sanità, introdotto dalla legge 42/09 sul federalismo fiscale. Per uniformare il costo della siringa, però, non serve il federalismo fiscale, basta la centrale unica degli acquisti.
Il Dlgs 68/11 ha identificato il costo standard (necessario per calcolare il fabbisogno standard di spesa regionale) con la spesa sanitaria pro-capite. Sono possibili numerose accezioni di costo standard. In economia aziendale il costo standard si riferisce al costo di produzione di un prodotto finito (un pezzo) in condizioni di efficienza ottimale o normale, escluse le situazioni anomale. La siringa non è un prodotto, ma la componente di un “prodotto” sanitario (un ricovero, un intervento ambulatoriale). Calcolare il fabbisogno regionale per questa via analitica (costo standard dei ricoveri per quantità standard dei ricoveri) sarebbe arduo, ma fattibile e politicamente corretto, perché permetterebbe, a posteriori, di verificare se la Regione ha registrato costi o quantità di ricoveri e prestazioni sanitarie superiori o inferiori allo standard. Ma sembra che i governatori non lo amino.

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QUALE STANDARD PER I COSTI

Il significato attribuito al costo standard dal Dlgs 68/11 come “spesa pro-capite standard” e riproposto dal Patto per la salute (articolo 1 commi 2 e 3) conduce in un vicolo cieco, come si è argomentato su questo sito nel 2010. È anche un metodo illogico, perché dopo avere calcolato e assegnato i finanziamenti (2011) secondo pesi rappresentativi dei bisogni sanitari e, quindi, della struttura demografica giovane o anziana (per cui alla Campania spetta una quota capitaria di 1.650 euro e alla Liguria di 1.916), definisce “virtuose”, a consuntivo, le Regioni in pareggio di bilancio nel 2011 e calcola il costo standard per il riparto 2013 (e in seguito, del 2012 per il 2014 e così via) sulla spesa media delle tre Regioni più virtuose, a prescindere dalla loro quota capitaria alta o bassa – e quindi dai bisogni sanitari. Insomma, è un costo standard di un costo standard originario. In nessuno dei circa venti paesi che adottano la quota capitaria in sanità è applicato un metodo così contorto. Urge una riflessione e un cambio di rotta, orientandosi su un metodo basato sulla prevalenza delle patologie croniche (70-80 per cento della spesa sanitaria) e sul costo standard per malattia (come suggerito da chi scrive), che è la nuova frontiera verso cui si sono incamminati numerosi paesi (Germania, Svizzera, Israele, Sud Africa), dopo l’esempio del Medicare in Usa (2004) e dei Paesi Bassi (2006). Con la prevalenza delle malattie croniche (ricavabile dai dati amministrativi) si riconosce la diversità regionale dei bisogni sanitari – e sotto questo profilo le Regioni del sud sono più svantaggiate, pur essendo più giovani. Ma con il costo standard per malattia (ad esempio per curare un tumore, un ictus, il diabete) si garantisce – e si pretende – che ogni Regione eroghi gli stessi Lea. Un federalismo sanitario mal inteso e mal applicato ha condotto a divaricazioni inaccettabili tra le Regioni. Non a caso il Patto per la salute 2014-16 riscopre oggi valori come uniformità, omogeneità, eguaglianza.

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Il Punto

  1. Massimo Parma

    C’è un altro aspetto rilevante da sottolineare al riguardo: se non c’è un “costo standard per malattia” , ma tutto affoga in un trasferimento procapite, non sarà possibile stabilire cosa lo Stato intende rimborsare a fronte di ciò che paga.
    Non mi riferisco tanto ai LEA, quanto piuttosto a valutazioni di qualità nella cura delle malattie, in particolare quelle croniche. Cioè lo stato paga non solo il fatto che la cura di una malattia sta dentro il protocollo nazionale, ma anche quali elementi base deve pretendere dalla struttura che riceve i soldi del trasferimento. Cioè per poter ricevere i soldi pubblici la struttura non deve solo essere a posto con tutti i parametri (frequenza infortuni e decupiti, incidenza infermieri, inservienti, medici ecc.) , ma deve garantire e documentare che le prestazioni svolte per la specifica malattia oggetto di trasferimento avvengano garantendo il rispetto di standard qualitativi prefissati.
    Non solo “costi standard”, ma per quanto possibile anche “prestazioni standard”, tendendo ad uniformare le pratiche di ogni struttura alle best practices. Ciò che evidentemente non è possibile per singola pratica, dovrebbe poterlo essere in media.

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