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Incompleta e confusionaria, ma è una riforma del lavoro

Il primo decreto attuativo del Jobs Act è l’inizio di una vera riforma del lavoro. Quello che ancora manca è la lotta contro la precarietà. E sarebbe bene disegnare le regole del mercato del lavoro in condizioni normali, senza i benefici fiscali. Troppa confusione sui dipendenti pubblici.
IL PRIMO DECRETO ATTUATIVO
La vigilia di Natale ha regalato agli italiani il decreto attuativo del Jobs Act. È un pezzo di vera riforma del lavoro, anche se certamente incompleta e con tratti di grande confusione, come testimonia il dibattito post natalizio sulla sua applicabilità al pubblico impiego.
Tra un mese, il licenziamento per motivi economici per i nuovi assunti non prevederà più la reintegra sul posto di lavoro, anche in assenza di giusta causa. L’articolo 18 è sostituito da una compensazione monetaria che crescerà con l’anzianità di servizio. Rimarrà invece la reintegra per i licenziamenti disciplinari, ma probabilmente sarà molto difficile per il lavoratore riuscire a ottenerla.
La riforma è decisamente incompleta. Mancano ancora gli interventi sulla precarietà. Senza toccare le regole dei co.co.pro e del contratto a tempo determinato la precarietà potrebbe anche aumentare. Un paradosso. Vediamo nel dettaglio le novità e criticità.
LE TUTELE CRESCENTI E I LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Dal febbraio 2015, le nuove assunzioni a tempo indeterminato saranno più flessibili. L’articolo 18 è quasi in pensione. Ha ragione Matteo Renzi quando dice che, con la riforma, “aumenteranno le assunzioni a tempo indeterminato”. Ha anche ragione Susanna Camusso quando sostiene che, con la riforma, “aumenteranno i licenziamenti”. Come è possibile abbiano ragione entrambi?
Quando si introduce un nuovo contatto a tempo indeterminato che riduce i costi dei licenziamenti, le imprese diventano davvero – come afferma Renzi – più propense a investire a lungo periodo nel lavoratore. Saranno più propense ad assumere perché sanno che, se le cose dovessero andare male, sarà più facile licenziare, come dice Susanna Camusso.
Il lavoratore ingiustamente licenziato per motivi economici, quelli legati all’andamento della domanda, alle condizioni di mercato e ai cambiamenti tecnologici e organizzativi, riceverà un indennizzo che sarà pari a un minimo di quattro mesi e inferiore a un massimo di ventiquattro e crescerà di due mesi per ogni anno di anzianità di servizio. L’impresa potrà offrire al lavoratore una conciliazione espressa con un pagamento immediato, in modo da evitare l’attesa della sentenza del giudice (la cosiddetta “rupture conventionnelle”).
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Il nuovo contratto è coerente con il contratto a tutele crescenti che con Tito Boeri abbiamo a lungo proposto su questo sito. È un grande passo avanti per portare l’Italia verso un mercato del lavoro normale.
Il Governo ha esteso la disciplina anche ai licenziamenti collettivi senza giusta causa: sono sempre per motivi economici e riguardano imprese che riducono la forza lavoro di almeno cinque lavoratori. Esistono già oggi e richiedono, per essere ammissibili, una procedura dettagliata, incluso un pre-accordo sindacale. Avere esteso la riforma anche a questi licenziamenti significa che le imprese potranno ridurre l’organico anche senza accordo sindacale. Dovranno però risarcire i lavoratori. È davvero un grosso cambiamento.
I LICENZIAMENTI DISCIPLINARI
La reintegra prevista dall’articolo 18 dei lavoratori rimarrà per i licenziamenti disciplinari senza giusta causa, ma richiederà che il giudice accerti che il fatto contestato al lavoratore non sussista. L’onere della prova davanti al giudice sarà però a carico del lavoratore. Le imprese dovranno stare molto attente ai dettagli di ciò che contesteranno al lavoratore. Quest’ultimo, a sua volta, avrà incentivo a dire al giudice che il licenziamento economico (che non prevede più la reintegra) sta mascherando in realtà un provvedimento disciplinare infondato. Il residuo di incertezza della nuova disciplina è in questa sottile differenza. Tutto dipenderà da come i giudici interpreteranno le nuove norme. Per i licenziamenti discriminatori, invece, ovviamente nulla è cambiato e si applicherà totalmente il vecchio articolo 18.
E LA LOTTA ALLA PRECARIETÀ?
La vera assente dal decreto di Natale è la lotta alla precarietà. Il presidente del Consiglio aveva detto più volte che il numero di contratti sarebbe stato ridotto. Rimangono invece tutti in essere, inclusi quelli a progetto, che nel settore privato rappresentano la vera forma di lavoro parasubordinato. Il contratto a tempo determinato, che oggi prevede fino a cinque rinnovi in tre anni senza restrizioni, non è stato toccato. Il vero rischio è che i giovani che entreranno nel mercato del lavoro affronteranno un cursus honorum infernale: un anno a progetto, tre anni a termine, seguiti da un periodo di prova di tre o sei mesi in cui non vi è alcuna tutela.
Dopo quattro anni e mezzo, accederanno a un contratto le cui protezioni crescono nel tempo. Un cursus honorum di questo tipo è troppo lungo e troppo precario.
Su questo sito avevamo da poco suggerito al Governo di rendere i contratti a progetto legittimi soltanto per un salario sufficientemente alto. E al tempo stesso di ridurre la durata massima del contratto a termine a due anni con tre rinnovi. Il Governo pareva intenzionato a seguire questa strada, ma sembra che all’ultimo abbia fatto marcia indietro. Altri decreti seguiranno quello natalizio, ma per ora contro la precarietà si è fatto troppo poco.
Il Governo è convinto che il nuovo contratto sarà stimolato dal beneficio fiscale previsto dalla legge di stabilità. Il beneficio è generoso (fino a 8mila per nuovo assunto), ma per ora dura solo un anno. In generale, è bene pensare e disegnare le regole del mercato del lavoro in condizioni normali e quindi senza i benefici fiscali, che difficilmente potranno essere rinnovati indefinitamente.
LA CONFUSIONE DEL PUBLICO IMPIEGO
La vera confusione è quella legata alla pubblica amministrazione. In Consiglio dei ministri era entrato un testo che applicava la nuova normativa al pubblico impiego e ne è uscito un testo che la esclude. Il presidente del Consiglio ha posto fine ai balletti delle dichiarazioni che ne sono seguite assumendosi personalmente la responsabilità della cancellazione e rimandando la questione del pubblico impiego a febbraio-marzo nel provvedimento che sta preparando il ministro Madia. È una situazione che riflette molto lo stile di questo Governo, con tutte le decisioni che vengono prese all’ultimo, sia quando si tratta di una nomina importante, che del destino di milioni di lavoratori pubblici.

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14 commenti

  1. Vincenzo Tondolo

    Il contratto a tempo determinato, che oggi prevede fino a cinque rinnovi in tre anni senza restrizioni, è stato toccato sì, ed è il decreto Poletti, trasformato in legge 16 maggio 2014, n. 78. Come poteva essere ritoccato a Natale ciò che era stato voluto fortemente sei mesi prima e, per giunta, dagli stessi soggetti?

  2. Alessio Zini

    Sig. Garibaldi, non le sembra assurdo che qualora un licenziamento economico venga giudicato illegittimo vi sia un indennizzo? E’ illogico.
    La vera riforma, a mio avviso, dovrebbe essere questa:
    Un lavoratore dovrebbe venire licenziato per motivi economici con di base un già misurabile indennizzo economico. Qualora il lavoratore pensi che la motivazione economica non sia veritiera, farà ricorso ad un giudice. Se il giudice accerta il licenziamento senza giusta causa, allora si potrà procedere o al reintegro o ad un ulteriore indennizzo, a scelta del lavoratore.
    Un rapporto onesto che “superi” l’articolo 18 dovrebbe essere questo. Altrimenti, inutile parlare di disciplinari o discriminatori: la verità è che se passa il concetto per cui ti licenzio per motivi economici, e pur in presenza di una dimostrata non sussistenza dei motivi, si viene comunque licenziati… Che senso ha? E’ un vuoto logico enorme. E soprattutto: il lavoratore senza lavoro e senza indennizzo dovrà preoccuparsi di entrare in causa per averlo.
    Non mi pare una buona riforma. Mi pare un testo scritto un po’ a caso, senza un pensiero strutturato dietro. Si vuole togliere l’articolo 18, ma non si vogliono dare pari responsabilità alle imprese. Liberalizziamo il licenziamento.. Sì, ma anche l’indennizzo. E’ stupido passare da un giudice per quantificare un indennizzo, bisognerebbe passarci solo per ottenere il reintegro nel caso in cui il lavoratore sia davvero convinto dell’insussistenza della causa.

  3. Roberta

    Un po’ di confusione c’è anche in questo articolo! Il vantaggio previsto dalla Lagge di Stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato è di tipo contributivo, non fiscale!

  4. Stefania S'

    Più che confusionario a me pare che manchi-per la verità in tutti i soggetti interessati – un disegno complessivo delle regole che devono definire il nuovo mercato del lavoro, sia privato che pubblico. Da qui la frammentazione degli interventi per quanto riguarda il privato e l’assenza, anche nella riforma Madia-almeno per quanto è a mia conoscenza- di un nuovo sistema per il pubblico. Il permanere di tutti i contratti precari rappresenta un errore la cui portata forse nemmeno siamo in grado di valutare,non solo perché ancora una volta annulla gli impegni in materia più volte assunti dal premier ma perché accresce, nei giovani ma non solo a fronte del fatto che i soggetti interessati sono anche quarantenni e oltre,una assoluta incertezza sul loro futuro e la totale sfiducia nello Stato. Nel pubblico, poi, ritarda interventi quantomai necessari se davvero si vuole avviare un percorso di sburocratizzazione e semplificazione: che non possono avvenire se non cambia il modo di intendere il lavoro ad ogni livello. E quindi a partire da una dirigenza a cui necessita uscire da una autoreferenzialità limitante e limitativa e da una troppo diffusa estraneità ad una concezione manageriale del ruolo che accompagni quella di ” servitori dello Stato” spesso più dichiarata che praticata. Limiti tutti che ricadono pesantemente sul personale vuoi impedendone lo svolgimento delle attività sulla base delle effettive competenze vuoi invece assecondandone una visione corporativa ancora diffusa

  5. Stefania S'

    Le considerazioni dell’autore sono del tutto condivisibili,soprattutto laddove da un lato sottolinea le caratteristiche di riforma del lavoro del Jobs Act ma dall’altro ne individua puntualmente le contraddizioni ed i limiti. Mi pare tuttavia essere non sufficientemente evidenziato il rischio insito nel mantenimento – nonostante le numerose rassicurazioni contrarie più volte date dal premier – di tutti i contratti in essere. Contratti che non riguardano soltanto i giovani ma anche un numero significativo di ultraquarantenni. Rischio che non è individuabile solo nell’allucinante percorso di carriera che aspetta gli interessati, ma nel rafforzamento di una totale sfiducia nello Stato in tutte le sue espressioni e di un disagio che non può che sfociare o nell’indifferenza o,e personalmente mi pare l’ipotesi più probabile, nella contrapposizione potenzialmente anche non pacifica. Da troppo tempo infatti su questo tema si teorizzano ipotesi di soluzione ma non si giunge a nessun esito concreto e tale da renderne gli effetti positivamente fruibili dai lavoratori interessati.Il limite che vedo più evidente nel Jobs Act è proprio quello di mantenere in essere contratti dalle caratteristiche assolutamente contrapposte di cui le imprese possono godere di volta in volta i vantaggi mentre i lavoratori ed i giovani e meno giovani in cerca di lavoro ne subiscono solo le conseguenze. Rafforzando chi rifiuta il cambiamento in sé e indebolendo chi lavora per un cambiamento davvero strutturale

  6. tOM

    Fino ad oggi in giudizio un dipendente poteva ottenere fino a 6-8 mensilità. Adesso arriviamo a 24. In pratica l’azienda si dovrebbe sobbarcare il costo di un dipendente fantasma fino a 2 anni, oltre alla liquidazione del tfr, senza uno straccio di aiuto (incentivi, semplificazione, riduzione delle tasse, liquidità). Con queste condizioni a rimetterci saranno i lavoratori più giovani, come al solito e alla faccia del patto inter-generazionale, perché chi si sognerebbe di licenziare un dipendente anziano con questi costi. In Italia bisogna invecchiare presto e cercarsi un bel posto nel pubblico, ecco il take-home message del Jobs Act.

  7. simone

    io lavoro da 7 anni nel settore privato con un contratto a tempo indeterminato, 5 livello. Se dovessi cambiare azienda, che tipo di contratto mi verrebbe proposto? conserverei la vecchia tipologia o confluirei direttamente nel nuovo? Nel secondo caso, come peserebbe la mia ‘anzianità’ contrattuale, le cosiddette tutele crescenti partirebbero da zero?

  8. Michele

    L’effetto principale di questa pseudo riforma sara’ quella di ingessare ulteriormente il mercato del lavoro: chi ora ha un vero contratto a tempo indeterminato perche’ dovrebbe voler cambiare lavoro e trovarsi con 6 mesi di periodo di prova e poi licenziabile in ogni momento (con una modesta penale a suo favore, il cui conteggio ricomincia da zero), magari per motivazioni completamente fuori dal suo controllo (crisi aziendali, cambi di strategia, vendita della societa’, cambio del management, nuovo capo a cui sta antipatico etc etc)

    • Per cambiare lavoro senza gravi conseguenze è sufficiente chiedere al nuovo datore di lavoro un contratto individuale che tratti in modo condiviso il periodo di prova, le indennità in caso di licenziamento, la retribuzione e tutto quello che si ritiene utile.

      • Michele

        Secondo Lei quanti potranno fare con successo queste richieste?

  9. Ale

    Nella parte che riguarda I licenziamenti collettivi c’e’ Una imprecisione piuttosto grave: non e’ vero che ora serva per forza un accordo sindacale. Se l’azienda vuole puo’ licenziare comunque, vedi ad es. la vertenza Nokia Siemens networks. Ovviamente l’accordo e’ di solito preferito per non avere poi le cause, visto che l’azienda normalmente non intende rispettare I criteri di legge nella scelta dei lavoratori da licenziare.

  10. Leon

    Che il mercato del lavoro pre riforma sia ingiusto e da cambiare totalmente, è un dato di fatto. Com’è un dato di fatto , però, anche che questa riforma è una riforma conservatrice e fortemente reazionaria, che conviene SOLO agli imprenditori. In Italia non c’è welfare : chi non lavora, al contrario dei paesi europei , non ha un sussidio garantito ogni mese ( parlo del reddito minimo garantito) e offerte di lavoro ( anche LavoriSocialmenteUtili) da parte dello Stato. E invece di introdurre strumenti da paese civile, cosa si fa ? Si diventa ancora più terzo mondo, perché l’imprenditore “è bravo, dà lavoro” , e si lascia mano libera al mercato. E abbiamo visto i danni . Tra l’altro, diciamocelo chiaramente senza falsità, la stragrande maggioranza degli imprenditori italiani sono dei delinquenti. Chi evade, chi inquina, chi licenzia senza motivo, chi sfrutta ecc. Ma secondo voi dando mano libera a queste persone diminuisce la disoccupazione? Sono gli stessi che dicono che per certi lavori c’è offerta ma non ci sono lavoratori qualificati, ma non si sognano nemmeno di organizzare e investire , magari coadiuvati dallo Stato, corsi di formazione finalizzati a vere assunzioni. Quindi, il mercato del lavoro italiano andava ( va?) riformato. Ma qui mi sembra che si stia passando dalla cosidetta padella alla brace, con mantenimento di contratti schiavisti quali stage ,cocopro ecc, e mantenimento dell’apartheid tra lavoratori con contratto indeterminato, che manterranno, e GLI ALTRI.

  11. Leon

    Poi , tra l’altro, chiedo una cosa : è possibile per un lavoratore con contratto a tutele crescenti chiedere al datore di trasformarglielo in contratto a tempo indeterminato. uguale a quello di adesso e che quelli che lavorano già manterranno ? Se un lavoratore vale e non si vuole davvero fare i padroni, si dovrebbe poter fare e in molti casi non ci dovrebbe essere niente da dire…baH

  12. Spartaco

    Gentile professore, quello che non è chiaro dal suo articolo è se nel tempo cresce solo l’ammontare dell’indennizzo o anche qualche altra tutela. Se crescesse solo l’indennizzo, perché si parla di “tutele crescenti”, al plurale?

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