Lavoce.info

Per ridurre la disoccupazione non basta la ripresa

Perché la disoccupazione diminuisca occorre una ripresa dell’economia. Ma l’aumento dei fatturati va accompagnato da misure che rendano più conveniente creare posti di lavoro in Italia, scoraggiando la delocalizzazione. L’analisi dei dati Istat su occupazione e Pil trimestrale.

LE TRE CAUSE DELLA DISOCCUPAZIONE
Semplificando all’osso, l’evoluzione nel tempo della disoccupazione dipende da tre variabili: andamento del Pil, regole del mercato del lavoro e processi strutturali come la possibilità delle imprese di delocalizzare una parte delle attività.
Il Pil è il riassunto di come va l’economia. Se cresce, è segno che l’economia va meglio e la disoccupazione diminuisce. Di quanto? Bisogna calcolarlo. Probabilmente, la disoccupazione diminuirà meno dell’aumento del Pil: se l’economia riparte dopo una recessione, gli imprenditori sono inizialmente incerti sulla qualità e la durata della ripresa e dunque non ricominciano subito ad assumere. Se poi ci sono occupati in cassa integrazione o se – a causa della crisi – quelli già occupati lavorano con orario ridotto rispetto al solito, può accadere che i fatturati ripartano senza che nulla succeda alla disoccupazione. Prima le aziende riassorbono i cassintegrati e riportano i già occupati al loro orario pieno; poi, assumono. Per questo la riduzione della disoccupazione è di solito percentualmente inferiore e anche ritardata di uno o due trimestri rispetto alla crescita del Pil.
A influire sulla disoccupazione non sono solo i fatturati: conta anche la facilità di assumere e licenziare. Contano cioè le regole del mercato del lavoro. Per questo negli ultimi mesi l’Italia si è divisa discutendo del Jobs Act, cioè di un insieme di provvedimenti legislativi comprensivi del contratto a tutele crescenti approvato poco prima di Natale. Nell’intento del Governo, il contratto a tutele crescenti dovrebbe indurre gli imprenditori che hanno di fronte una ripresa ancora timida e incerta ad assumere lavoratori con contratti a tempo indeterminato anziché con i contratti precari degli ultimi vent’anni. Così come il decreto Poletti di marzo, operativo a partire dal mese di giugno, era fatto per facilitare il rinnovo dei contratti a termine rispetto a quanto prescritto dalla legge Fornero.
Infine (anche se non meno importante) a influenzare la disoccupazione entrano variabili più difficili da misurare, come il coinvolgimento delle aziende in attività di delocalizzazione, cioè lo spostamento di segmenti di produzione all’estero (in Romania, in Slovacchia, in Cina, in America).
COSA DICONO I DATI
I dati dell’Istat su occupati e disoccupati e sul Pil trimestrale italiani consentono di quantificare in modo relativamente preciso la relazione tra disoccupazione e crescita. Usando i dati trimestrali dal primo trimestre 2004 al quarto trimestre 2014 (per un totale di 43 trimestri) l’analisi statistica indica che la (variazione della) disoccupazione è la somma di due elementi, uno misurabile con i dati trimestrali e un altro non misurabile, come indicato dalla formula riportata sotto:

Leggi anche:  Lavorare nel pubblico o nel privato? Due mondi a confronto*

 Variazione disoccupazione nel trimestre
=

(effetto delle variabili non misurabili) – 0,175 x (crescita del Pil nei due trimestri precedenti)

 
La formula dice che per ogni punto di crescita del Pil la disoccupazione diminuisce come logico, ma il calo è solo di circa 0,2 punti (0,175 per la precisione). Se anche la crescita trimestrale fosse dello 0,25 per cento per i prossimi quattro trimestri (per un aumento di Pil cumulato di +1 per cento, un risultato che non si vede dal 2010), la disoccupazione diminuirebbe solo dello 0,175 per cento (1 per -0,175). Quasi niente, insomma. I dati dicono anche che il coefficiente di -0,175 è rimasto uguale anche negli ultimi tre trimestri, cioè dopo l’approvazione del decreto Poletti.
Che cosa dunque tiene alta la disoccupazione e che cosa potrebbe farla scendere? I dati Istat non consentono di rispondere con precisione alla domanda, ma qualche indicazione la danno. Pur non potendo attribuire gli effetti alle singoli voci, l’analisi statistica indica che l’effetto complessivo delle variabili non misurabili era zero tra il 2004 e il 2008. Vuol dire che delocalizzazioni e altri processi in grado di influenzare la capacità di creare lavoro in Italia indipendentemente da come va il Pil non aggiungevano né toglievano al trend della disoccupazione italiana. I dati Istat dicono però anche che le cose sono cambiate dal 2009: da allora, infatti, l’effetto delle variabili non misurabili (l’espressione tra parentesi nella formula) vale un +0,2 punti percentuali in ogni trimestre. Con la crisi, cioè, una crescita zero del Pil si associa ad un aumento del tasso di disoccupazione trimestrale di 0,2 punti percentuali. E’ il drammatico riflesso della chiusura di molte aziende in passato attive nell’indotto delle grandi imprese e del fatto che anche quelle che hanno continuato a produrre in Italia hanno spesso creato posti di lavoro fuori dai confini nazionali.
MISURE PER CREARE VERI POSTI DI LAVORO
L’analisi dei dati trimestrali su disoccupazione e Pil porta a due conclusioni. La prima è che, in assenza di ripresa dei fatturati, la disoccupazione è destinata a rimanere elevata. La seconda – meno ovvia – è che se alla ripresa dei fatturati non si accompagneranno misure che riducano la disoccupazione e aumentino la crescita strutturale (ad esempio politiche del lavoro che rendano più conveniente creare posti di lavoro in Italia e altre riforme – come quella del fisco, della pubblica amministrazione e della giustizia civile – che scoraggino l’incentivo a delocalizzare), la società italiana sarà destinata a convivere con elevati tassi di disoccupazione per un lungo periodo di tempo.
La ripresa ci vuole, ma non basta se manca un ambiente che favorisca la creazione di veri posti di lavoro.

Leggi anche:  Tirocini in cerca di qualità*

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'alternanza scuola-lavoro? A volte porta all'università

Precedente

Il Punto

Successivo

La deflazione che (ancora) non c’è

12 commenti

  1. Enrico

    Analisi interessante. Aumenterei il peso dell’ambiente” rispetto a quello della “ripresa”, in quanto quest’ultima è un concetto più fumoso rispetto al primo. Oserei anche dire che se c’è l’ambiente allora arriva la ripresa.

  2. Maurizio Cocucci

    Se mi permette prof.Daveri aggiungerei anche la questione burocrazia e fiscalità. Quello che scoraggia molti aspiranti imprenditori, anche (se non soprattutto) giovani, dall’iniziare una attività d’impresa qui in Italia (così come investimenti esteri nel nostro Paese) è la assurda burocrazia prevista, burocrazia che non significa firmare 15 documenti anziché uno ma il fatto che per adempiere a quei 15 occorre impiegare molto tempo e spesso il dover attendere mesi se non anni per il responso che ti permette di iniziare. Poi c’è la questione fisco e contributi che ti assaltano già prima di aver emesso la prima fattura. Domenica scorsa in una trasmissione televisiva è stato mandato in onda un servizio nel quale un imprenditore del nord est ha affermato di aver delocalizzato in Carinzia (Austria, non Romania, Polonia o Cina) perché esasperato da questi due fattori. Eppure in Austria c’è l’euro, il fiscal compact, il pareggio di bilancio, il patto di stabilità e crescita. Insomma tutte le scuse che si sentono quotidianamente mentre gli imprenditori continuano (inascoltati) a puntare il dito su quanto scritto sopra. Quello che fa rabbia è che la burocrazia sarebbe una riforma a costo zero se non vantaggiosa perché ridurre tale peso consentirebbe anche di ridurre il carico di lavoro dei dipendenti pubblici aventi il compito di controllarne i dati. Purtroppo qui non c’è cultura di impresa, ma solo quella di fare cassa per sostenere le ingenti spese pubbliche.

    • bob

      ” Purtroppo qui non c’è cultura di impresa, ma solo quella di fare cassa per sostenere le ingenti spese pubbliche.” Testimonianza personale : per un lavoro di circa 10 mila euro ad un Ente Pubblico abbiamo riempito 42 fogli protocollo equivalente di 2 persone per una mattina intera. Azienda con 10 persone! Prof.re non sono i numeri che creano sviluppo ad un Paese, non sono mille leggi e decreti lo sviluppo di un Paese lo crea cultura e mentalità. Non solo, come sostiene Cocucci, non si può creare cultura con questa folle burocrazia, ma non può esserci sviluppo senza piani e progetti poltici e industriali a lungo termine. La Germania partì dalla Golf di Giorgetto Giugiaro per risalire la china e diventare il primo produttore si auto al mondo, parliamo del 1968. Oggi progetti potenziali sono nell’ambiente, nell’ energia, nel turismo, nella riqualificazione e ristrutturazione del patrimonio immobiliare che sarebbe da volano anche per l’accoglienza e il turismo di massa. Per non parlare dell’ agro-alimentare. Immaginate se per ogni settore ci fosse un piano e un obiettivo da raggiungere. Tralascio l’elettronica, la chimica ( letteralmente distrutta ) . Ma attenzione addossare le responsabilità solo alla classe politica è comodo e fuorviante. Cosa hanno fatto in nostri “imprenditori”? Le lottizzazioni e i centri commerciali nel deserto? I pannelli solari installati in ogni dove ( andate a vedere la vergogna dell’ Umbria) in funzione solo dei contributi da incamerare?

  3. Giovanni Teofilatto

    Più occupazione giovanile. Il carattere generale di riduzione dei prezzi al consumo garantiscono una maggiore possibilità di evitare le tasse garantendo così una spesa pubblica corrente costante a parità di entrate fiscali con stabilità del bilancio pubblico ma minore salari per la forza lavoro occupata. In altre parole l’uscita anticipata dal mercato del lavoro dei fattori meno produttivi sono equivalenti ad un aumento dell’occupazione, e, quindi, del pieno impiego di tutti gli imput produttivi anche grazie ad un aumento della spesa pubblica tale da creare condizioni di sviluppo economico ma, soprattutto un aumento dei salari dei lavoratori.

  4. Che cosa tiene alta la disoccupazione e che cosa potrebbe farla scendere, si domanda nell’articolo il Prof. Daveri. Su che cosa la tenga alta è stato scritto molto, compreso questo interessante articolo. Tra i fattori che potrebbero farla scendere ne va aggiunto un altro, forse non il più importante, ma che se viene sempre taciuto rischia di diventare un tabù. Allora meglio parlarne. Mi riferisco al rifiuto di determinati lavori da parte dei nostri giovani connazionali. Esempio: se (spero) riparte l’edilizia, ne beneficeranno di più i rumeni e gli egiziani o gli italiani? In ogni caso è illusorio pensare che il terziario avanzato possa riassorbire parti rilevanti dei nostri disoccupati; i posti che si creeranno in futuro dovranno essere in parte occupati da lavoratori stranieri, perché i nostri giovani, con l’aiuto della famiglia, possono mirare ad altro; e ciò è umanamente comprensibile. Del resto l’aumento di laureati e diplomati è di per sé positivo, ma se non corrisponde alla domanda di lavoro, è inutile poi pensare a soluzioni illusorie.

  5. Savino

    Tra le cause della disoccupazione, soprattutto giovanile, ci sono anche un sistema previdenziale iniquo ed una sfiducia pregiudiziale verso i giovani. C’è gente che non ha versato un contributo in vita sua e si ritrova extra-pensioni e c’è gente che vi è andata troppo presto. Ciò sfascia i conti INPS (che dovrebbe fare più welfare ai disoccupati senza reddito che previdenza). Bisogna rendere più giusto il sistema delle pensioni per mettere a riposo chi 40 anni e passa di contributi li ha versati davvero e fare spazio ai giovani. Come si è visto, una legge che metta mano alle pensioni, che chiuda i rubinetti dello spreco, faccia giustizia sociale e migliori i conti, non può essere contestata da nessuno con referendum. E, allora, coraggio, la si faccia. Si parla, inoltre, a vanvera di giovani incapaci e neet. Ma vi sembra che tanti 50-60enni che hanno un posto al sole, soprattutto nella P.A., ma anche nel privato, siano migliori professionalmente e culturalmente? Allora, bisogna abbandonare questo pregiudizio e lo Stato farebbe bene a fare un investimento su nuovi dirigenti e funzionari nella P.A. Credo che, nel medio e lungo periodo, i soldi apparentemente spesi in eccesso nel breve, riserverebbero dei vantaggi notevoli.

  6. La disoccupazione purtroppo resterà alta a lungo e ciò per una serie di fattori, oltre a quelli individuati chiaramente dal Prof. Daveri.
    Anzitutto occorre ricordare che il nostro paese di fatto non fa politica industriale da molti anni. Nulla viene fatto per le PMI, anziché di incentivarle a crescere si fa di tutto per ostacolarle. Per non parlare dei costi dei della produzione: il costo del lavoro perché deve essere più elevato da noi che in Germania ? Idem per l’energia. A completare il quadro (estremamente) negativo, si aggiunga la tassazione (insopportabile e caotica), la giustizia che non permette di recuperare i crediti e far valere le ragioni di impresa, in tempi ragionevoli, con la ovvia conseguenza che le imprese più dinamiche se ne sono già andate, mentre le altre soccombono e incrementano le classifiche dei fallimenti e delle procedure concorsuali.

  7. Giovanni Teofilatto

    Gli scambi di merce valuta è funzionale al momento di congiuntura della domanda interna tale che l’eccessiva pressione fiscale ed eccesso di produttività del lavoro a svantaggio del pieno impiego e dei redditi sugli agenti economici causa uno squilibrio della bilancia commerciale nel breve periodo con copertura finanziaria del lungo periodo per effetto della ragione innovativa ma a svantaggio competitivo per la produzione di merci tipo per l’economia di vantaggio competitivo è la creazione di aspettative adattive non razionali la causa del successo economico.

  8. IC

    Per scoraggiare la delocalizzazione è necessario ridurre in Italia il costo del lavoro

    • Maurizio Cocucci

      Il costo del lavoro italiano è già più basso rispetto a quello delle economie del centro e nord Europa. Invece se confrontato con quello di altri Paesi dell’est Europa è più alto ma con un differenziale del tutto ad oggi incolmabile in quanto vi sono notevoli differenze di potere di acquisto. La soluzione sta invece nel puntare su prodotti a maggiore valore aggiunto ed aumentare il compenso netto dei lavoratori, sia riducendo il cuneo fiscale sia aumentando i compensi lordi che sono tra i più bassi, sempre se confrontati con quelli dei Paesi del centro e nord Europa. Per i dettagli si possono leggere i vari dati Eurostat: http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Hourly_labour_costs

  9. aldo

    Oramai gli italiani hanno capito che in un paese che sulla carta guadagni 10 in realtà, 6-7 lo devi allo stato(tra l’altro non certi per via degli studi di settore); 2 devi anticipare l’iva, 1 qualcuno non paga (devi aspettare 10 anni, ma in contabilità va inserito) quindi non rimane quasi nulla, il rischio vale?.. E’ da anni che sono stati posti freni ai germogli imprenditoriali altissima è la moria di imprese nei primi 5 anni come pure saltano i ricambi generazionali, i nuovi illusi sono gli stranieri perchè non hanno capito il meccanismo. I giovani vanno a lavorare ed aprire aziende all’estero i pensionati che hanno ancora un po di capacità pure e con la pensione che si abbassa sempre più sarà la tendenza.Da noi rimangono: anziani con poca capacità ma con badanti le cui rimesse vanno all’estero più di quelle che entrano in Italia; stranieri illusi ma con una tassazione ancora non compresa; politici con tutti i componenti dei loro privilegiati che continueranno a mangiare alle spalle del paese. Ma che ha rovinato il paese è stato l’introduzione degli studi di settore per poter mantenere quei privilegi.Un filosofo diceva se ci sono 2 polli e li mangi tutti e 2 tu la media è che ne abbiamo mangiato 1 a testa.Invece di investire si è cercato di eliminare macchinari invece di assumere si è cercato di licenziare.
    Come può un piccolo imprenditore comprare un furgoncino se quello gli implica possibili ulteriore tasse. Ecco il paese non cresce per queste piccole cose

  10. Piero

    Ok, aumentare il Pil, vuol dire analizzare le cause della sua discesa; basta vedersi indietro, si vede che la causa della discesa del Pil e’ l’euro; dopo che in Italia abbiamo, burocrazia, rigidità del lavoro, tasse alte, e’ giusto, va tutto riformato, ma il pil in passato cresceva lo stesso.
    La vera causa di questo macello e’ il cambio fisso tout court adottato in Europa senza integrazione fiscale, ha creato uno spostamento di ricchezza verso i paesi nordici, la questione è sotto gli occhi di tutti; Renzi deve avere il coraggio, allearsi con la Grecia per riformare questo schifo che vi porterà al suicidio economico.
    Draghi fa fatto tardi quello che doveva fare 3 anni fa, poi siamo ancora solo ad un’annuncio.
    Già nel 2007 avevo previsto tale scenario tragico ( commento sull’articolo di Giavazzi, Sarkozi e la Bce).

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén