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Trasporti: liberalizzazione fa rima con sicurezza?

Chi si oppone alle liberalizzazioni nei trasporti fa spesso appello alla sicurezza. Ma i dati dicono che mortalità e sinistri sono diminuiti visto che la deregolamentazione non comporta allentamenti dei requisiti di sicurezza. La difesa di interessi particolari, a scapito di quello generale.

CHI INVOCA LA SICUREZZA
Calunniate, calunniate, qualcosa resterà. Il detto di Voltaire sembra ben adattarsi al caso delle iniziative che mirano a impedire l’attuazione di politiche di liberalizzazione e privatizzazione nel settore dei trasporti, appellandosi a presunte ricadute negative in termini di incremento dei livelli di incidentalità.
Dalla deregulation del trasporto aereo negli Stati Uniti alla privatizzazione del settore ferroviario nel Regno Unito, alla liberalizzazione dell’autotrasporto, non si contano le previsioni o le “constatazioni” del peggioramento degli standard di sicurezza affermate dai fautori dello status quo. Limitandosi a quanto accaduto in Italia solo nelle ultime settimane, il tema della sicurezza è stato riproposto dai taxisti che si oppongono all’ingresso sul mercato di soggetti come “Uber” (che non darebbero garanzie sufficienti), dagli operatori portuali – contrari alle ipotesi di rimozione di alcuni vincoli alla competizione contenute in una bozza del disegno di legge sulla concorrenza e poi stralciate dal governo – e dal presidente di Anav (Associazione nazionale autotrasporto viaggiatori) che, in un’audizione all’Autorità di regolazione dei trasporti, ha accusato “Blablacar” di mettere a rischio la sicurezza degli utenti.
IL RISCHIO DI MUOVERSI
Nel lungo periodo, tutti i modi di trasporto sono caratterizzati da una fortissima riduzione dei tassi di mortalità e dei sinistri. Qualche esempio: nel trasporto aereo agli inizi degli anni Sessanta si registravano alcune decine di incidenti mortali per milione di voli. In seguito, il valore si è ridotto progressivamente e nel 2013 si è attestato a 0,33: il fattore di rischio si è quindi ridotto di oltre il 90 per cento.
Figura 1 – Numero di incidenti mortali per 100 milioni di voli dal 1959 al 2013
Schermata 2015-03-12 alle 16.01.29 Evoluzione analoga ha interessato il settore dell’autotrasporto, anch’esso storicamente caratterizzato da un alto grado di competizione, ulteriormente rafforzatosi negli ultimi vent’anni con l’apertura delle frontiere e l’ingresso nella UE dei paesi dell’Europa orientale. Ciò nondimeno, anche in questo ambito, il livello di sicurezza ha conosciuto un costante miglioramento: sulla rete autostradale italiana, ad esempio, il tasso di mortalità relativo al traffico pesante che era superiore a cinque morti per 100milioni di veicoli-km nel 1970 si è attestato a 0,33 (-94 per cento) nel 2013.
Figura 2 – Numero di morti per 100 milioni di veicoli pesanti-km sulla rete autostradale in Italia dal 1970 al 2013
Schermata 2015-03-12 alle 16.01.39Una meta-analisi pubblicata nel 2006, che si basa su venticinque valutazioni riguardanti le esperienze di deregolamentazione economica nei settori del trasporto aereo, ferroviario e stradale, giunge alla conclusione che le riforme non hanno alterato il trend di lungo periodo di riduzione dei tassi di incidentalità ed evidenzia come vi sia una correlazione positiva tra liberalizzazione e accelerazione di tale evoluzione, sebbene non sia possibile provare un rapporto di causa ed effetto tra i due elementi.
IL CASO RAILTRACK
Di particolare interesse è poi la privatizzazione del trasporto su ferro nel Regno Unito. A differenza di quanto “documentato” dagli organi di informazione e propagandato soprattutto da parte dei sindacati di settore, la riforma attuata a metà degli anni Novanta non ha avuto impatti negativi sulla sicurezza. Come documentato da Andrew Evans, in ciascuno degli anni successivi alla privatizzazione il numero di incidenti mortali rapportato al traffico complessivo è risultato essere inferiore a quello che sarebbe stato prevedibile ipotizzando che il trend di evoluzione del fenomeno in atto prima della riforma fosse rimasto inalterato (figura 3).
Figura 3 – Numero di incidenti mortali per milione di treni-km nel Regno Unito dal 1945 al 2004
Schermata 2015-03-12 alle 16.01.51
D’altra parte, le esperienze di deregulation che hanno interessato i vari settori della mobilità negli ultimi trent’anni non hanno comportato alcun allentamento dei requisiti di sicurezza in vigore prima delle riforme. Occorre poi sottolineare come, se da un lato la competizione fra operatori può costituire un incentivo a ridurre le spese per la manutenzione dei veicoli e, spesso, comporta un carico di lavoro più gravoso per gli addetti, dall’altro, un degrado dei livelli di sicurezza garantiti da un’impresa nel quadro di un assetto concorrenziale avrebbe un’immediata ripercussione negativa sulla profittabilità e, in alcuni casi, sulla stessa esistenza, a differenza di quanto accade in presenza di un’impresa monopolista o largamente dominante a controllo pubblico.
Nel caso di Railtrack la presunta – e inesistente – performance negativa è stata una delle motivazioni che hanno portato al ritorno in mani pubbliche della gestione della rete ferroviaria, mentre nessuna conseguenza sull’assetto proprietario hanno avuto i due più gravi incidenti ferroviari accaduti in Europa negli ultimi venti anni, il deragliamento nel 1998 di un treno alta velocità a Eschede in Germania che causò centouno vittime e quello del 2013 in Spagna nel quale hanno persero la vita ottanta passeggeri.
Come spesso accade sui temi dell’impatto ambientale e della socialità del servizio, l’argomento “sicurezza” sembra quindi, più che altro, un’arma impropria utilizzata dagli incumbent per difendere i propri interessi particolari, a scapito di quello generale.

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  1. roberto

    Il disservizio delle ferrovie inglesi,al di là di quanto risulta dalle statistiche di parte, è verificabile da chiunque abbia viaggiato su tali ferrovie prima e dopo la privatizzazione!!!

  2. mario

    Sono un ex dirigente di azienda industriale, ora in pensione, premesso che, come evidenziato anche nell’articolo, non è possibile provare un rapporto di causa ed effetto tra liberalizzazione e accelerazione in tema di riduzione dei tassi di incidentalità, mi limito a segnalare che, relativamente ad Uber, il tema principale riguarda lo sfruttamento selvaggio delle multinazionali nei confronti di soggetti che non hanno alcun potere contrattuale se non quello di sottoporsi, mutatis mutandis, ad una sorta di “capolarato”. La società, infatti, mette a disposizione esclusivamente un “app” e guadagna sulla “pelle” dei forzati autisti. Non mi sembra il migliore dei mondi possibili in tema di rapporti umani: è la disumanizzazione del lavoro altrui. Va bene il profitto, solo se c’è valore aggiunto. Dove non c’è valore aggiunto, c’è – ripeto – solo sfruttamento.

    • bob

      ..caro Mario è in atto uno scontro di culture tra chi, per dirla con un esempio, ha scritto ” dei delitti e delle pene” 300 anni fa e chi gestisce la legge con cinturone e pistola nel 2015. E’ civile un Paese che tiene una persona 20 anni in galera per poi eliminarlo con il veleno? Ho voluto partire da qui per dire che valore danno alla vita umana certe ” americanate”. A Londra esistono i tipici Black cabs regolamentati con estrema severità e forniscono una alta pofessionalità e i minicab che operano sulle periferie e sono auto private perlopiù emigrati polacchi etc con cui rischi la vita ogni volta che li prendi, anche perchè di solito lavorano nelle ore notturne. Comunque per arginare il fenomeno Uber doveva essere la stessa corporazione dei tassisti a proporre innovazione e non pensare solo al commercio delle licenze. Qualcuno (Uber) ha fatto male quello che gli stessi tassisti avrebbero potuto fare bene e con un pò di buonsenso

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