Inps, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno siglato una convenzione per definire le modalità di raccolta, elaborazione e comunicazione dei dati sulla rappresentanza delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro. È un passo avanti importante per le relazioni sindacali. I nodi ancora aperti.
IL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA
Lo scorso 16 marzo è stata siglata una convenzione tra Inps, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil per definire le modalità di raccolta, elaborazione e comunicazione dei dati relativi alla rappresentanza delle organizzazioni sindacali sui luoghi di lavoro. L’accordo rappresenta un passo in avanti importante per le relazioni sindacali in Italia delineando procedure condivise per la certificazione della rappresentatività sindacale e per una effettiva esigibilità dei contratti collettivi.
La ritrovata unità sindacale sul tema della rappresentanza segue un lungo percorso avviato con una serie di protocolli unitari dal giugno 2011 fino alla definizione del Testo unico sulla rappresentanza del gennaio 2014 in cui sono state definite nel dettaglio le regole relative alla misurabilità della rappresentanza sindacale a livello nazionale e aziendale e l’efficacia dei contratti collettivi. Proprio quell’accordo rimandava a soggetti esterni, quali l’Inps e il Cnel, la certificazione delle informazioni per la corretta applicazione delle procedure.
Ma cosa prevede il Testo unico? Per la contrattazione collettiva nazionale di categoria devono essere rilevati sia i dati associativi, con riferimento alle deleghe sindacali (trattenute operate dal datore di lavoro su esplicito mandato del lavoratore) comunicate dal datore di lavoro all’Inps e certificate dall’Istituto medesimo; sia i dati elettorali relativi alle elezioni delle Rsu (i voti raccolti da ogni singola organizzazione sindacale). I due indicatori, rilevati dai dati associativi e dai dati elettorali, peseranno per il 50 per cento nella determinazione della rappresentanza, così come già previsto per il pubblico impiego. Quindi per misurare il “peso” dei sindacati al tavolo delle trattative sarà utilizzato un indicatore sintetico di rappresentanza sindacale che certificherà il superamento della soglia di sbarramento del 5 per cento per l’ammissione al tavolo. Inoltre, affinché il contratto di categoria sottoscritto sia efficace ed esigibile, i sindacati dovranno mostrare di avere un indice di rappresentatività di almeno il 50 per cento più uno, dei lavoratori votanti. (Si veda Maurizio Del Conte su Lavoce).
Anche se questa procedura non ha mancato di sollevare il dissenso dei piccoli sindacati che, non essendo firmatari di contratti nazionali, non potranno essere conteggiati, non c’è dubbio che la definizione delle regole di certificazione della rappresentanza sia un passo importante nel processo di ricomposizione del quadro delle relazioni industriali, che chiude la stagione di accordi separati tra le confederazioni sindacali e il progressivo logoramento del sistema che aveva portato all’uscita di Fiat da Confindustria e alla sentenza della Corte costituzionale (23 luglio 2013, n. 231). Inoltre, l’accordo tra Inps e le parti sociali consente di dare finalmente attuazione a quanto previsto dall’articolo 39 della Costituzione in merito alla “rappresentanza unitaria dei sindacati” e alla rappresentatività “su base proporzionale al numero degli iscritti”.
L’Inps, in seguito all’accordo e per i prossimi tre anni, provvederà a raccogliere (tramite la compilazione di un’apposita sezione in Uniemens) il numero delle deleghe conferite a ciascuna organizzazione sindacale di categoria firmataria (o aderente) al Testo unico e a trasmettere i dati raccolti al Cnel. Il Cnel a sua volta effettuerà la ponderazione tra dato associativo e dato elettorale che servirà a verificare la rappresentatività delle diverse organizzazioni sindacali.
SERVE UNA LEGGE?
Vi sono tuttavia alcuni nodi lasciati aperti dal Testo unico e che l’accordo non contribuisce a sciogliere.
Primo, restano tuttora da definire le modalità di misurazione e certificazione della rappresentanza delle associazioni datoriali.
Secondo, un ruolo centrale nel processo di certificazione della rappresentanza è stato attribuito al Cnel, di cui tuttavia il disegno di legge costituzionale del governo ha previsto l’abolizione.
Terzo, rimane aperta la questione dell’efficacia dei contratti “erga omnes”, per la quale gli accordi interconfederali non hanno potere decisionale. Infatti, in mancanza di un atto che estenda gli effetti del contratto alla generalità dei lavoratori, e non solo alle parti firmatarie e ai loro iscritti, rimane aperta la possibilità di conflitti sulla rappresentatività sia sull’esigibilità dei contratti. Infatti, i lavoratori non iscritti ad alcun sindacato o iscritti a sindacati diversi da quelli che hanno firmato l’accordo non sono vincolati da quanto sottoscritto.
Su quest’ultimo punto tuttavia le confederazioni sindacali sono tutt’ora divise. Da un lato, la posizione di chi vede un intervento legislativo inutile (finirebbe per recepire quello che le parti anno già definito) o addirittura come un’invasione di campo rispetto alla autonomia delle parti sociali. Dall’altro, chi invece auspica che il governo dia completa attuazione all’articolo 39 della Costituzione con un intervento legislativo.
In parlamento sono in discussione diverse proposte di legge che riprendono sostanzialmente l’attuale assetto del pubblico impiego e i cardini del Testo unico prevedendo un’estensione del contratto collettivo di tipo “maggioritario” (cioè stipulato dalla coalizione che abbia avuto la maggioranza dei consensi nell’ultima consultazione) in modo che risulti efficace nei confronti di tutti i dipendenti dell’azienda. La questione è ovviamente complessa e non è facile delineare con chiarezza i costi e i benefici di un intervento legislativo. “Se” tuttavia le parti sociali sapranno dare prova di unità, forza e coerenza, più che in passato, nella conduzione delle relazioni industriali allora “forse” un intervento del legislatore potrebbe risultare ridondante. I “se” e i “forse” in questo caso sono d’obbligo.
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Flavio Casetti
Per firmare un contratto occorrono almeno due controparti. Non è sufficiente definire la rappresentatività di chi rappresenta i lavoratori. Chi siede dall’altra parte del tavolo? Fiat che esce da Confindustria, UnipolSai da ANIA, minuscole centrali cooperative che fanno dumping contrattuali con strani sindacati, ormai non sono solo episodi. Chi definisce l’ambito contrattuale è l’organizzazione datoriale. Senza una legge che definisca gli ambiti contrattuali e la modalitá di composizione dei tavoli contrattuali non si approderà a nulla. Ricordo ad esempio che oggi esistono almeno 4 CCNL metalmeccanici firmati da Federmeccanica, CONFAPI, associazioni artigiane, centrali cooperative. Non è un problema grave finché i lavoratori sono rappresentati a tutti i quattro tavoli dalle stesse sigle sindacali. Lo diventa se le controparti firmatarie sono entrambe diverse come nel caso dei contratti “pirata” come quello sottoscritto da UNCI e sindacati autonomi per le cooperative sociali in dumping rispetto a quello dei confederali con Alleanza delle Cooperative Italiane.
Savino
Sono lavoratori anche i disoccupati, gli inoccupati, i cassintegrati, i precari, le vere e le false collaborazioni con partite IVA, gli studenti universitari, i ricercatori, i liceali, i tirocinanti, i praticanti nelle libere professioni, i migranti che lavorano nell’agricoltura e nel commercio, gli emigrati che se ne vanno col loro bagaglio di professionalità (intellettuale e manuale), il salumiere, il barista ed il barbiere, il garzone della salumeria, del bar e del barbiere, il pizzaiolo e i suoi dipendenti, chi sta nel commercio, chi apre una start-up e chi si arrangia con dei lavoretti.
Chi li rappresenta in questo Paese?