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Quando le riforme strutturali diventano un boomerang

Le riforme strutturali possono rivelarsi addirittura dannose, se non sono accompagnate da simultanee misure di espansione della domanda. Ma in una unione monetaria ciò è precluso e la politica monetaria non può agire da cinghia di trasmissione tra sacrifici e benefici.

L’interconnessione fra le politiche
“Per aumentare l’investimento e la creazione di posti di lavoro i Paesi devono implementare riforme del mercato del prodotto e del lavoro e migliorare il “business environment” (Mario Draghi, 15 aprile 2015).
Poche banche centrali al mondo si occupano di riforme strutturali quanto la Bce. Riferimenti a liberalizzazioni del mercato dei beni e del lavoro sono presenti in ogni “policy statement” della banca. L’ ultima conferenza stampa di Draghi del 15 Aprile ne è stata un’ulteriore conferma. Il mantra è che riforme dal lato dell’offerta siano cruciali per aumentare la capacità produttiva dell’economia europea.
È tipico però che di riforme strutturali si parli in modo indipendente da altre politiche, di stabilizzazione della domanda aggregata, in particolare monetarie e fiscali. L’idea è che le riforme strutturali servono a sostenere la crescita potenziale di lungo periodo (il “trend”), mentre le politiche di stabilizzazione a gestire le fluttuazioni del ciclo economico nel breve periodo.
Si tratta in realtà di un errore logico, perché i due tipi di politiche sono strettamente interconnessi. Realizzare le une, quindi, non ha senso senza le altre. Anzi, nell’ambito specifico di una unione monetaria, le famose riforme strutturali, se non accompagnate da simultanee misure di espansione della domanda, possono rivelarsi addirittura dannose. In altri termini: chiedere maggiore flessibilità salariale nella periferia dell’euro (Spagna, Italia) può rivelarsi un boomerang. Perché?
La cinghia di trasmissione della politica economica
Consideriamo il caso del mercato del lavoro. Che cosa succede in una economia se, con liberalizzazioni contrattuali, i salari sono improvvisamente resi più “flessibili”, cioè più liberi di crescere in tempi di boom, ma anche di scendere in fasi di crisi? Da un lato i salari saranno più instabili, potenzialmente un male. Ma dall’altro questo permetterà al livello di occupazione di diventare più stabile, un bene quindi (se in recessione le imprese sono in grado di diminuire i salari, riusciranno anche a salvaguardare i posti di lavoro). In altri termini, se il prezzo del bene lavoro (il salario) diventa più flessibile, la quantità di questo bene diventa più stabile.
Il punto centrale è il seguente. Che cosa determina quanta instabilità dei salari e quanta stabilità dell’occupazione in più otteniamo da una maggiore flessibilità salariale? La cinghia di trasmissione è la politica monetaria.
Supponiamo che un’economia sia colpita da una contrazione della domanda. Come detto, se i salari sono più flessibili, tenderanno a scendere, esercitando pressione al ribasso sui costi delle imprese, e quindi sui prezzi. Tipicamente, di fronte a pressioni deflazionistiche di questo tipo, la banca centrale reagisce abbassando i tassi di interesse, il che spinge al rialzo consumi e investimenti (se i tassi di interesse scendono, agli agenti conviene risparmiare di meno, quindi anticipare le proprie spese nel periodo corrente rispetto a quello futuro). La spinta al rialzo di consumi e investimenti, di fatto, sostiene la domanda di lavoro delle imprese. Ne segue che quanto più la politica monetaria ha margini di flessibilità per rispondere alla caduta iniziale della domanda, tanto più la maggiore flessibilità dei salari riuscirà a tradursi in maggiore stabilità dell’occupazione. E’ quindi la politica monetaria che assicura che la pillola amara della flessibilità salariale si traduca nel beneficio di una occupazione più stabile.
Cosa succede in una unione monetaria
Che cosa accade, però, se la politica monetaria ha le mani legate? Ad esempio, se un paese appartiene a una unione monetaria, e non può quindi rispondere con una politica monetaria indipendente a una contrazione regionale (quindi asimmetrica) della domanda? Lo stesso, però, potrebbe accadere in una economia che mantiene ancorato il tasso di cambio a una parità fissa, oppure che abbia raggiunto il limite zero sui tassi di interesse. Se la politica monetaria ha le mani legate, la cinghia di trasmissione si interrompe. La maggiore flessibilità salariale si tradurrà quasi esclusivamente in maggiore instabilità dei salari, con benefici minimi o nulli in termini di stabilità dell’occupazione.
Riforme strutturali del mercato del lavoro in una unione monetaria, quindi, possono essere controproducenti. Rischioso invocare maggiore flessibilità dei salari in Italia e Spagna se contemporaneamente, in queste economie, non vengono attuate politiche di sostegno della domanda. I due interventi (riforme e sostegno della domanda) sono dunque complementari.
Il problema di fondo, però, è che la politica monetaria in una unione monetaria non può essere asimmetrica, cioè ritagliata sulle esigenze specifiche di un paese. In questo si cela la forte contraddizione della Bce quando invoca a gran voce le riforme strutturali.
È vero che in questa fase la Bce sta accompagnando la sua richiesta di riforme con politiche espansive quali il Quantitative Easing (Qe). Ma il Qe non ha un target asimmetrico, cioè una riduzione dei tassi di interesse (e, si spera, del costo del credito) solo nella periferia dell’euro. Dovrebbe essere una politica fiscale asimmetrica (ad esempio un taglio consistente delle tasse solo nel Sud Europa) a fare da cinghia da trasmissione della maggiore flessibilità salariale richiesta nella periferia. E’ evidente che la governance dell’area Euro è ancora lontana da una gestione ottimale della politica economica.

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  1. Giulio Giovannini

    Grazie. Bell’articolo. Con articoli così il 5 x 1000 e sicuramente vostro

  2. beneathsurface

    Gent.mo Prof.,prendo un modello keynesiano ADAS.
    La flessibilità dei salari nominali,facendo slittare a destra la curva AS porterebbe a diminuzione dei prezzi,più occupazione e reddito.
    Il modello già così condurrebbe all’agognata ‘stabilità occupazionale’.
    Ciò che x me Lei non dice sono i presumibili effetti microeconomici di tale riforma sulle preferenze dei singoli soggetti.Se io sapessi che il mio salario è flessibile e legato ai risultati aziendali,settoriali,nazionali,attuali o prospettici,allora sarei più propenso a risparmiare OGGI.
    Maggiore propensione al risparmio uguale minore inclinazione di curva IS e(se investisse la componente autonoma di consumi e investimenti)lo slittamento verso sinistra della stessa.Risultato:minore livello di reddito nazionale e tassi di interesse reali più bassi.
    In tal senso una politica monetaria espansiva produce ulteriore riduzione dei tassi reali e aumento dei prezzi,con conseguente riduzione del valore reale dei salari.
    Si da inoltre per scontata l’esogenità dell’offerta di moneta,che tale non è,basti vedere i grami risultati di BCE a trasmettere la sua policy al sistema.
    Si può supporre che l’effetto su cambio reale sia prevalentemente svalutativo(causa prezzi e salari reali),ma si è sicuri che il nuovo livello dei tassi interesse sia coerente con resto del mondo?Un eventuale necessario rialzo(perfetta mobilità dei capitali)spiazzerebbe gli investimenti,e comunque i risparmiatori potrebbero cercare fuori confine rendimenti migliori

  3. Paolo

    Nella mia assoluta ignoranza dell’Economia, con la E, ho la sensazione di leggere tra le righe un velato riconoscimento del fallimento della moneta unica perlomeno per i paesi del sud Europa, dal quale magari trarre conclusioni… si può fare crescita e sviluppo soltanto se si dispone della possibiltà di agire sulla ” propria ” moneta!

  4. Savino

    Le riforme strutturali servono se vanno a colipire le rendite di posizione diffuse a macchia di leopardo che si sono profittate della crisi per arricchirsi. Diversamente, sono solo annunci con promesse da marinaio e perdite ulteriori di tempo.

  5. beneathsurface

    Grazie professore leggerò attentamente e con interesse il paper che ha linkato.
    La brevità dei caratteri a disposizione per i commenti mi aveva impedito di aggiungere una mia conclusione. Lo faccio ora.
    Penso che per evitare l’effetto microeconomico da me ipotizzato serva anche una altra riforma strutturale, quella del mercato della domanda e offerta lavorativa e formativa. Per fare il solito esempio, il modello tedesco con la sua percentuale di successo nell’incontrare domanda e offerta supererebbe lo scoglio della flessibilità in uscita, del peso della disoccupazione involontaria sulle casse pubbliche e sarebbe pure di disincentivo alla flessibilità salariale “ingiustificata” dai peggiori risultati aziendali ma causata x esempio solo dal minore potere sindacale dei lavoratori.
    E così si torna al discorso solito: tutto si tiene, ma l’insieme delle riforme necessarie è largo e necessariamente armonico.
    Lei cosa ne pensa?
    Saluti e ancora grazie

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