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Studi di settore? Più efficaci se cambiano a sorpresa

Gli studi di settore saranno rivisti. Ma sono utili per indurre i contribuenti a conformare i redditi dichiarati a quelli reali? E hanno permesso di identificare gli evasori? I dati dicono che le misure sono efficaci se inaspettate. Ma anche che la capacità di adattamento al nuovo regime è rapida.

Studi “manipolabili”
In questi giorni il Consiglio dei ministri ha varato tre decreti attuativi della riforma fiscale, aggiungendo degli ulteriori tasselli per il completamento della legge delega.
Una volta attuata la delega, è prevedibile che l’attenzione sul fronte delle azioni di promozione della tax compliance si sposti sulla revisione degli studi di settore, riforma in qualche misura già preannunciata da diverse dichiarazioni del direttore dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi.
Le proposte dovranno necessariamente basarsi sui risultati ottenuti finora dagli studi di settore in termini di aumento della tax compliance.
Cosa ci dicono i dati a disposizione? L’analisi dei dati sugli studi di settore dal 2005 al 2012 è resa particolarmente complessa dal periodo di crisi economica. I redditi e i ricavi dichiarati dalle imprese, fisiologicamente, seguono molto da vicino le variazioni del Pil. Durante gli anni di crisi, però, i cambiamenti dei valori dichiarati non sono stati omogenei: sia ricavi che redditi hanno mostrato una frenata meno marcata nel 2009 che nel 2012, nonostante la flessione del Pil sia stata più che doppia (5,5 per cento contro 2,4 per cento). Nondimeno, in entrambi i casi, la riduzione dei ricavi dichiarati è stata di intensità superiore rispetto alla contrazione del ciclo economico e questo fenomeno non è limitato ai soggetti non congrui.
Secondo un’opinione diffusa, una delle possibili cause di questi risultati altalenanti è la facilità con cui i contribuenti possono manipolare il sistema degli studi di settore, dichiarando valori degli input non veritieri ed evitando la possibilità di accertamenti grazie all’acquisizione dello status di congrui.
I risultati delle modifiche
Gli studi di settore sono stati oggetto di diverse modifiche nel corso degli anni. I cambiamenti introdotti offrono una modalità per valutarne l’efficacia nel promuovere la fedeltà fiscale dei contribuenti. È migliorata nel tempo la loro capacità di indurre i contribuenti a conformare i redditi dichiarati a quelli reali? È aumentata la loro capacità di identificare gli evasori?
Utilizzando i dati resi pubblici dall’Agenzia delle entrate è possibile dare una parziale risposta a queste domande per quel che riguarda la più incisiva riforma degli studi, ossia l’introduzione degli indicatori di normalità economica avvenuta per la totalità dei contribuenti con una procedura provvisoria (senza l’approvazione della commissione degli esperti e a livello di studio anziché di cluster, quindi più imprecisa) per il periodo d’imposta 2006 e, per gli studi in revisione, con una procedura definitiva a partire dal 2007.
L’obiettivo dell’analisi della normalità economica è limitare le possibilità di manipolazione da parte del contribuente, impedendo la dichiarazione di valori delle variabili contabili e strumentali troppo lontani da quelli ritenuti “normali”, data la situazione economica e il settore a cui il contribuente appartiene.
Se consideriamo i redditi e i ricavi dichiarati per i periodi di imposta 2005, 2006 e 2007, ovvero precedentemente all’introduzione dell’analisi di normalità e durante la sua messa a regime, notiamo che nel 2005 i soggetti non congrui (cioè i contribuenti i cui ricavi non sono in regola con gli studi e quindi passibili di accertamento) dichiarano ricavi medi superiori a quelli dei soggetti congrui, sebbene i redditi medi siano inferiori. Una situazione del tutto anomala, che conferma l’esistenza di un’ampia attività di manipolazione dei dati per raggiungere la congruità.
Nel 2006, con l’introduzione degli Ine, si osserva un aumento nei ricavi medi dei soggetti congrui del 7,2 per cento (molto superiore all’incremento del Pil). Si nota anche un forte aumento nei redditi medi dichiarati, più forte per i soggetti congrui (25 per cento), ma presente anche per quelli non congrui (13 per cento).
La riforma del 2006, dunque, attuata con modalità tali da risultare innovativa e imprevista per i contribuenti, ha generato un forte aumento dei ricavi e dei redditi dichiarati dai soggetti congrui, con una maggiore distinzione da quelli non congrui (che sono anche aumentati di numero).
Questa capacità sembra tuttavia affievolirsi negli anni successivi. Nel 2007, nonostante una situazione economica migliore del 2006, l’aumento dei ricavi dichiarati si arresta per i soggetti congrui, e rallenta per i non congrui; lo stesso trend si osserva nei redditi.
L’analisi per settori
Le evidenze derivate dai dati aggregati sulla ridotta efficacia nel tempo delle riforme degli studi di settore vengono confermate da un’analisi a livello settoriale, distinguendo i settori con studi sottoposti a revisione nell’anno di imposta 2007 da quelli con studi non revisionati nello stesso periodo, adottando un’analisi di tipo difference in difference.
I risultati non mostrano nessun effetto significativo della riforma realizzata nel periodo di imposta 2007 su redditi e ricavi dichiarati dai contribuenti, indipendentemente dalla loro macroarea di attività e dalla loro natura giuridica. Al contrario, nei settori produttivi soggetti alla riforma si nota tra il 2006 e il 2007 un aumento maggiore della percentuale di contribuenti non congrui (dal 25 al 28 per cento), rispetto ai settori non riformati (dal 25 al 26 per cento).
Due sono le conclusioni che possiamo trarre sugli effetti delle passate riforme degli studi di settore:
1) Le riforme sono efficaci, a patto che risultino inaspettate al contribuente: è il caso dell’introduzione provvisoria degli indicatori di normalità nel 2006, che ha effettivamente indotto i contribuenti a modificare il loro comportamento in sede di dichiarazione.
2) I contribuenti mostrano un adattamento molto veloce alle modifiche che vengono apportate agli studi: anche una riforma consistente, quale l’analisi di normalità, viene rapidamente metabolizzata, come mostra la stabilizzazione di ricavi e redditi dichiarati tra il 2006 e il 2007. A queste difficoltà si sono presumibilmente aggiunte quelle dovute all’adattamento degli studi di settore alla crisi (con l’introduzione dei cosiddetti “correttivi per la crisi”) che ha portato ai risultati già illustrati per il 2009 e per il 2012.
È tempo di ritornare a riflettere sull’argomento.

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L’elusione codificata

  1. Asterix

    Cambiare a sorpresa imponendo degli indicatori presuntivi di maggiori ricavi omessi, determinati d’ufficio dall’Agenzia delle Entrate,a 3,5 milioni di contribuenti, non mi sembra una grande idea perché genererebbe solo un inutile contenzioso con esito non scontato a favore dello Stato (soprattutto dopo che la Cassazione ha più volte precisato che i risultati presuntivi degli studi sono un indizio di evasione ma devono essere supportati da altre prove). Gli studi erano finalizzati a far emergere gradualmente maggiori redditi imponibili (partendo però dalla verifica dei soli ricavi primo difetto) per le categorie a maggiore rischio di evasione quali lavoratori autonomi, imprenditori individuali perché non soggette al meccanismo del sostituto di imposta. Hanno funzionato? Nel 1998 erano congrui (naturali o per adeguamento solo il 68% dei contribuenti) oggi la percentuale è incrementata all’81, quindi sembrerebbe di sì. Peccato che i dati pubblicati ogni anno delle dichiarazioni IRPEF ci dicono un’altra verità, visto che la quota dei redditi di lavoro dipendente e di pensioni sul totale è incrementata fino ad arrivare nel 2012 all’81% del totale ed il reddito medio dichiarato dai lavoratori autonomi (tranne alcuni professionisti come i notai soggetti a particolari controlli) è di poco superiore ai redditi dichiarati dai loro dipendenti. Quindi gli studi da soli hanno fallito la loro missione (prevedibile) e devono essere supportati con altri strumenti.

  2. dvd

    E’ da diversi anni che mi chiedo se il fisco ci fa o c’è nel senso che gli strumenti presuntivi di reddito dovrebbero essere solo strumenti che indicano la “fedeltà” dei contribunenti non salariati e nulla di più mentre nella pratica con leggi e leggine sopravvenute e sentenze discutibili ma comprensibili solo se lette alla luce del “gettito” immediato si è vista la progressiva applicazione degli strumenti presuntivi come metodo coercitivo per il contribunete tanto da lasciare l’analisi contabile e analitica sullo sfondo con ricadute pratiche “pericolose”. Oggi nessuno giudica più la contabilità “importante” a partire proprio dagli organi di controllo che la considerano sempre più “inattendibile” e di fatto spostando il barientro su strumenti presuntivi e finanziari che dovrebbero per me essere solo la “cartina tornasole” e non l’elemento “principe” circa la prova della evasione. Credo che se vogliamo percorrere questa strada come pare sia allora meglio alleggerire la piccola e media impresa di ogni fardello contabile e burocratico e passare in modo deciso e diretto alla forfettizzazione del reddito da programmare di anno in anno direttamente con l’ufficio preposto.
    Questa sovrapposizione di analisi presuntiva e obbligo di contabilizzazione analitica non ha per me troppo senso e non credo che possa alla lunga reggere e comunque portare maggior reddito e incassi per lo Stato.

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