Uno dei decreti di attuazione della delega fiscale delinea una netta separazione fra ciò che è elusione e ciò che costituisce evasione. E definisce con chiarezza la ripartizione dei compiti tra amministrazione e contribuente. Pur con qualche formulazione vaga, è una norma matura. Avrà successo?

La differenza tra elusione ed evasione
Nella seduta del 22 aprile il governo ha approvato importanti (e attesi) interventi di natura tributaria. Tra gli altri, spiccano la nuova disciplina dell’elusione (abuso di diritto), quella della collaborazione preventiva fra grandi imprese e fisco, quella relativa alle transazioni internazionali (in entrata e in uscita), quella dei nuovi investimenti stabili e superiori a 30 milioni di euro. Molto atteso (specie ai fini della voluntary disclosure) anche l’intervento, più tecnico, sul raddoppio dei termini di accertamento.
Complessità degli argomenti e ragioni di spazio impongono di commentare separatamente i provvedimenti proposti (che devono, comunque, passare al vaglio della apposita commissione interparlamentare). Cominciamo, allora, dall’elusione.
È conclamato, innanzitutto, che elusione e abuso di diritto sono la stessa cosa. Colpisce la netta separazione fra ciò che costituisce elusione rispetto a ciò che dà luogo a evasione. Perché vi sia elusione è necessario che le norme siano pienamente rispettate. Se invece non sono state rispettate, va configurata l’evasione. Può sembrare una differenza da poco, ma non è così. L’evasione comporta, infatti, l’applicazione di sanzioni penali; al contrario, l’elusione è sanzionata solo in via amministrativa. Per esempio: se si omette di dichiarare i redditi di una società estera (nella considerazione che non operi in Italia) e poi viene fuori che la società in questione è, in realtà, amministrata dall’Italia (dando istruzioni dall’Italia a un mero esecutore estero portante il cappello di amministratore locale) si ricade nell’ipotesi di evasione e non di elusione.
L’abuso di diritto
L’abuso di diritto si configura quando le operazioni esaminate sono: (i) prive di sostanza economica e (ii) realizzano vantaggi fiscali indebiti. Sono “prive di sostanza economica” quelle operazioni in cui, confrontando il punto di partenza con quello di arrivo, si scopre che hanno prodotto principalmente vantaggi fiscali, ma con scarse ricadute sostanziali.
Le variazioni sostanziali non devono attenere necessariamente alla produzione di redditi: possono configurasi anche come modifiche di ordine “organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa”. Insomma, la fusione fra una scatola piena che fa utili e una scatola vuota con in pancia perdite (già espresse o in fase di formazione), la cui motivazione extrafiscale starebbe nella riduzione delle spese per consiglio di amministrazione e collegio sindacale di una delle due, non sta in piedi. Se, invece, si divide (con una scissione) la componente immobiliare da quella industriale per diversificare la compagine sociale o migliorare l’appetibilità finanziaria, l’elusione non c’è.
Le “finalità” delle norme fiscali
I vantaggi fiscali “indebiti” sono quelli “realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”. Formulazione, ahimè, un po’ vaga e suscettibile di interpretazioni discutibili. Mentre non è difficile la disamina di una norma codificata, più problematica sembra l’individuazione delle sue “finalità”. Molte norme tributarie sono, infatti, figlie di nessuno. Un qualsiasi parlamentare deposita un emendamento con due righe di relazione illustrativa e, per logiche magari anche solo tattiche, viene approvato. Una finalità detto emendamento certo la porta: ma qual è ? Chi lo può dire con certezza ? Anche sui “principi dell’ordinamento tributario” qualche perplessità non guasta. La nostra epoca è di quelle in cui i cambiamenti di scenario si producono con una certa frequenza e spesso il legislatore tributario deve inseguire i fatti piuttosto che guidarli. Basti pensare, per fare un esempio, alle problematiche e al trattamento dei cosiddetti derivati o dei titoli ibridi. O anche, sul piano dei principi, al concetto di territorialità dell’imposta quando ci si confronta con gli intangibili operatori di Internet (si farà mai, e come, la Google tax?).
Importante, infine, la ripartizione dei compiti: l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la condotta abusiva; il contribuente quella di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali. Colpisce l’affermazione espressa che la condotta abusiva “non è rilevabile d’ufficio”. Questa precisazione normativa tira un po’ le orecchie a quei collegi giudicanti che – nel corso di una lite tributaria già instaurata – hanno sollevato d’ufficio il tema dell’abuso di diritto saltando a piè pari tutto l’iter amministrativo che le legge già prevedeva come propedeutico alla contestazione di una elusione (contraddittorio fra contribuente e fisco; termini e modalità di emissione dell’atto impositivo).
La nuova norma è, in conclusione, più penetrante e matura. Avrà successo? Il pessimismo dell’intelligenza spinge a dire: speriamo di sì, ma molto dipenderà dagli applicatori.

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