La riforma delle politiche attive del lavoro è necessaria, ma è stata inserita in un disegno normativo molto vasto, con inevitabili ritardi. L’agenzia nazionale rischia di divenire un inutile carrozzone. Meglio limitare il potere legislativo delle regioni e creare uno sportello unico del lavoro.
Uno, nessuno, centomila modelli
La riforma dei servizi pubblici per l’impiego e delle politiche attive del lavoro è in questo momento in una fase di “stallo”. L’iter legislativo è tutt’altro che semplice perché la riforma fa parte di un disegno normativo dalle dimensioni “titaniche”: un intreccio di norme che va dal provvedimento Delrio (legge n. 56/2014), alla riforma costituzionale del Titolo V (disegno di legge ac 2613) fino alla delega prevista dal Jobs act (legge n. 183/2014).
Sotto molti aspetti, il Jobs act ripercorre le riforme Hartz del mercato del lavoro tedesco, con la costituzione di una agenzia federale del lavoro, un percorso che ha richiesto almeno dieci anni e decide di miliardi di euro per la sua concreta applicazione.
In Italia, l’attuale modello delle politiche del lavoro è suddiviso ancora per competenze istituzionali, come compartimenti stagni, con il governo chiamato a definire gli obiettivi generali, quasi sempre disattesi. La progettazione delle politiche attive del lavoro spetta invece alle regioni e per effetto dell’applicazione del Titolo V della Costituzione si sono creati venti modelli diversi. Infine la gestione dei servizi pubblici per l’impiego è declinata in prevalenza alle province (tabella 1).
Tabella 1 – Allocazione della governance dei servizi pubblici per l’impiego e presenza agenzia regionale
Fonte: Nostre elaborazioni su diverse fonti delle singole regioni o del ministero del Lavoro
Il quadro diventa ancora più complesso perché va aggiunta la competenza dell’Inps in termini di politiche passive, oltre al fatto che all’interno del modello esercitano vari ruoli agenzie nazionali o regionali e in certi casi anche consorzi a livello locale.
Super-carrozzone statale o inutili agenzie regionali?
Il primo punto critico della riforma, che in buona parte è anche la causa del ritardo, riguarda la programmazione delle politiche attive, ovvero decidere chi le deve programmare e realizzare.
Da una parte, si punta a una agenzia nazionale di impostazione fortemente statale, che riassorba completamente le deleghe in capo alle regioni, tornando a un modello presente in Italia prima della riforma Bassanini. A ciò si aggiunge che in questa struttura confluirebbe il personale di ItaliaLavoro e Isfol, dei centri per l’impiego e non si esclude anche eventuali “esuberi” della pubblica amministrazione. In altre parole, la struttura rischia di trasformarsi una sorta di ammortizzatore sociale per i dipendenti della Pa.
E sembra assurda l’idea che le politiche del lavoro in Val Camonica o in provincia di Reggio Calabria siano decise e pianificate dallo stesso dirigente a Roma, con il rischio di creare decine di programmi standardizzati, eliminando quel poco di buono che è stato realizzato in alcune regioni.
L’alternativa a questo modello, suggerito da alcune regioni, è quello di costituire delle agenzie regionali del lavoro (o riformare quelle esistenti) che realizzino la programmazione, senza modificare la normativa vigente, in compartecipazione con l’eventuale agenzia nazionale. Questa visione è peggiore del super-carrozzone statale, perché così se ne creerebbero venti para-pubblici, con elevati rischi di lottizzazioni.
Inoltre, la seconda soluzione pone tre questioni tutt’altro che irrilevanti: crea agenzie regionali che diventerebbero dei cloni del dipartimento lavoro presso la regione; si dimentica che in passato alcune agenzie regionali (come in Val d’Aosta o Lazio) sono state soppresse perché considerate enti inutili; ma la cosa più sconcertante è l’incapacità di alcune regioni di ammettere che il problema di inefficienza e scarsa governance esiste e va affrontato.
La soluzione pragmatica
Sarebbe opportuno che la fase di programmazione fosse lasciata ancora alle regioni, che tuttavia perderebbero il loro potere legislativo – e questa sembra essere anche l’intenzione del governo. Cambierebbe così il rapporto tra Stato e regioni, e l’agenzia nazionale per l’occupazione coordinerebbe ed eventualmente sostituirebbe le regioni inadempienti o incapaci di realizzare gli obiettivi concordati.
Mentre risulta più complessa la riorganizzazione dei servizi pubblici per l’impiego (Pes), per mancanza di soldi, la legge delega dovrebbe creare sinergie tra gli uffici territoriali dell’Inps, i centri per l’impiego e le camere di commercio, che nei fatti dovrebbero tradursi nella costituzione di uno “sportello unico del lavoro” (ma saranno necessari anni per realizzarlo).
Seguendo le indicazioni provenenti dall’agenzia nazionale (che ne dovrebbe assumere il controllo), lo sportello erogherà tutte le attività di carattere amministrativo, assicurando la corretta applicazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e delegando (verificandone i risultati) i servizi specializzati ai fornitori privati (profit e non-profit).
Inevitabile resta comunque la razionalizzazione delle risorse impiegate, non solo nei Cpi, ma anche nelle altre istituzioni: serve a far fronte al radicale cambiamento del concetto stesso di servizi pubblici per l’impiego, dove si rivelano sempre più necessari finanziamenti per piattaforme informatiche online volte all’incontro tra domanda e offerta di lavoro o per favorire la mobilità occupazionale a livello globale.
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Roberto De Vincenzi
Circa la “soluzione pragmatica”, personalmente non trovo che l’idea di uno Sportello Unico per il lavoro per l’erogazione dei soli servizi amministrativi sia condivisibile. L’unificazione in un solo luogo (Centro per l’impiego pubblico) dei servizi amministrativi e dei servizi basilari per il lavoro (accoglienza, colloquio di primo livello, analisi delle competenze e definizione Piano azione individuale) è, a mio parere, la strada da seguire, non a caso adottata nei paesi avanzati. Peraltro ciò renderebbe più facile applicare il principio di condizionalità, nostro storico tallone d’Achille. I servizi specialistici (orientamento, affiancamento e formazione nelle sue diverse tipologie) sono invece un altro affare, quelli sì da “acquisire” sul mercato dell’offerta privata. L’Italia è indietro (anche sul tema delle politiche del lavoro) rispetto agli investimenti di risorse finanziarie, umane e strumentali. Dovremmo almeno quadruplicarle, tanto per non essere ridicoli rispetto al resto d’Europa, ecco la soluzione pragmatica. Sulla capacità, poi, della nostra dirigenza pubblica (statale o regionale che sia) di saper gestire risorse e strutture conviene qui sorvolare (ce ne sarebbe da dire), ma il modello di riforma del sistema dei servizi per il lavoro (che sono servizi di prossimità che affrontano il vero disagio sociale) non può non considerare il ruolo fondamentale del settore pubblico e il valore aggiunto offerto dalla collaborazione con il privato.