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Quel che manca al Freedom of information act all’italiana

Presentato in Senato un disegno di legge su diritto di accesso, libertà di informazione e trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Amplia di molto l’ambito soggettivo di applicazione del diritto di accesso. Ma non si armonizza con altre norme e non risolve il problema del riuso dei dati.
Due esigenze da bilanciare
Con il disegno di legge, recentemente presentato al Senato, in materia di diritto di accesso, libertà di informazione e trasparenza (il cosiddetto “Freedom of information act” italiano), alcune questioni legate al livello di democraticità dei poteri pubblici, sotto il particolare aspetto della trasparenza dell’azione amministrativa, sembrano potersi chiarire; altre paiono invece complicarsi.
È ormai vecchio di un quarto di secolo il primo tentativo del legislatore italiano di bilanciare il più ampio accesso possibile dei cittadini agli atti della pubblica amministrazione con la necessità di limitare i costi, i rischi, ma anche le possibili lesioni di altri interessi di rango costituzionale che potrebbero derivare da un’apertura incondizionata. Sintesi di tale bilanciamento è la scelta della legge 241/90 di subordinare l’accesso all’esigenza del richiedente di tutelare “situazioni giuridicamente rilevanti”. Da quel momento in poi obiettivo prioritario di successive iniziative legislative, non sempre andate a buon fine, è stato quello di superare questo asfittico margine di manovra. Tra queste, in particolare, il decreto legislativo 33/2013, che ha introdotto lo strumento dell’accesso civico.
Pregi e difetti della nuova proposta
Il progetto di legge Foia4Italia depositato ora al Senato rappresenta la più recente iniziativa per incrementare ulteriormente la trasparenza della pubblica amministrazione.
Uno, su tutti, il valore aggiunto dell’iniziativa legislativa che sembra poter aumentare la trasparenza dell’azione amministrativa: si amplia significativamente l’ambito soggettivo di applicazione della normativa sul diritto di accesso. Oltre alle pubbliche amministrazioni, le disposizioni rilevanti si applicheranno a numerosi altri soggetti, tra cui, per esempio, le autorità indipendenti di garanzia e di vigilanza, le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni e le società da queste controllate. Almeno due, però, sono i punti da rivedere.
In primo luogo, lo stesso appellativo di Freedom of information act, che scimmiotta il nome della legge americana, è improprio. È infatti sconsigliato importare, anche solo dal punto di vista nominalistico, istituti giuridici dall’esperienza statunitense senza la necessaria attenzione al differente contesto costituzionale in cui si vorrebbero far attecchire. Il rischio è una crisi di rigetto. Il Freedom of information act in Usa si fonda (anche) sulla immensa protezione costituzionale della libertà di espressione riconosciuta dal primo emendamento della Costituzione statunitense. Nei sistemi giuridici europei, e in Italia in particolare, possono nascere problemi nel coordinamento tra libertà di espressione, di informarsi e tutela dei dati personali.
In secondo luogo, la disciplina non è armonizzata con lo strumento dell’accesso civico, disciplinato dall’articolo 5 del cosiddetto decreto trasparenza, che prevede l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di rendere noti documenti, informazioni e dati, attribuendo allo stesso tempo il diritto di chiunque di richiederli quando la loro pubblicazione sia stata omessa.
Da una parte, infatti, il disegno di legge odierno sembra segnare un superamento rispetto a quanto previsto dalla disciplina del 2013, dall’altra invece sembra rappresentarne un passo indietro.
Il passo avanti è evidente: il diritto di accesso così come configurato nel disegno di legge non si riferisce soltanto agli atti la cui pubblicazione da parte della pubblica amministrazione è già obbligatoria.
Anche l’arretramento è lampante. Uno degli elementi più innovativi della normativa in tema di accesso civico è l’attenzione attribuita alla questione cruciale del riutilizzo dei dati. Come ha fatto chiaramente emergere una ricerca recentemente pubblicata, firmata da studiosi dell’Università Bocconi, il tema dell’accesso non può essere sconnesso da quello del riuso, finalizzato ad assicurare ampia disponibilità dei dati pubblici per tutti coloro che hanno un interesse a riutilizzarli a fini privati o commerciali.
La nuova iniziativa legislativa si concentra su una valorizzazione encomiabile del diritto di accesso, che però rischia di risultare nella pratica monco se non lo si affianca alla possibilità, da parte dei privati, di riutilizzare i dati e le informazioni cui si è avuto accesso. Solo attraverso un approccio unitario, che tenga insieme accesso e riuso, è possibile affrontare in modo efficace la sfida di un’effettiva apertura del patrimonio informativo pubblico.
Sarebbe allora forse utile un più meditato miglioramento del (già promettente) decreto trasparenza del 2013, rispetto a una nuova disciplina che, nella sua primissima fase di gestazione, evidenzia problemi di coordinamento con quanto già previsto.

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  1. Marco Quadrelli

    Una considerazione sul riuso dei dati di tipo aperto (d.l. 18.10.2012 n°179, sez. II, artt. da 6 a 9). In particolare, sostituendo il co.3 dell’art. 68 Cad (in materia di riuso ) ed intervenendo sull’art.52 (sull’accesso e riutilizzo), all’art. 9, viene definito il “formato dei dati di tipo aperto” e i “dati di tipo aperto”. Ergo: la disciplina c’è già.

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