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Quanto conta la diversità sul lavoro *

Più brave, ma meno occupate e meno pagate degli uomini: è la situazione delle donne italiane. E se le quote obbligatorie nei consigli di amministrazione sono opportune, l’esperienza americana indica che occorrerebbe introdurre regole di disclosure per la diversità anche nelle posizioni dirigenziali
Più brave, ma meno pagate
I dati dell’ultimo rapporto AlmaLaurea (disponibile qui) indicano che nel 2014, in Italia, qualunque disciplina si consideri, si sono laureate più donne che uomini. E più donne hanno raggiunto la laurea in corso, hanno avuto voti migliori, ottenuto più borse di studio. Risultati grosso modo analoghi si susseguono da ben più di un decennio. Eppure, le donne disoccupate o in cerca di un’occupazione sono di più degli uomini e le loro retribuzioni sono in media decisamente inferiori a quelle maschili. La disparità è significativa anche nelle posizioni apicali: nei consigli di amministrazione delle società quotate italiane, nonostante la legge Golfo-Mosca che impone le quote di genere, solo il 20 per cento degli amministratori è donna, mentre in altri paesi europei le percentuali sono più alte. Dimostrare che maggiore diversità in posizioni di responsabilità determini risultati economici migliori per le imprese è più complicato, anche se gli indizi non mancano. Correlazione non significa causalità, ed è possibile che non sia la presenza di amministratori donna ad aumentare i profitti, ma che le società che hanno (comunque) buoni risultati, più solide e ricche, siano più “illuminate” e attente alla diversità di genere. Un recente e ottimo studio di due giuriste di Stanford indica che l’evidenza sull’esistenza di un nesso di causalità tra presenza femminile e risultati economici non è affatto univoca. Certo, però, la diversity non nuoce e dunque deve essere incoraggiata per ragioni sociali, se non di profitto.
Stati Uniti campioni di diversità
Gli Stati Uniti sono spesso presi a modello per la corporate governance e il diritto finanziario. Ma hanno qualcosa da insegnarci sulla board diversity? La condizione femminile, nel mondo professionale americano, appare migliore che in Italia. Lo si vede anche da cose apparentemente piccole: lo stigma sociale che gli anglosassoni riservano a battute maschiliste ancora tollerate in Italia è, in realtà, sia causa che effetto di un maggior rispetto – anche sostanziale – per la diversità. Però, sorprendentemente, nelle società Fortune 500 il numero di donne nei consigli di amministrazione è leggermente inferiore al dato italiano, naturalmente dopo la legge Golfo-Mosca. Da un punto di vista giuridico, le differenze sono dunque interessanti. Diversi paesi europei hanno optato per quote obbligatorie del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione. Altri sistemi, come Stati Uniti e Australia, preferiscono evitare imposizioni di legge e affidarsi semplicemente alla disclosure circa diversità di genere e rappresentanza delle minoranze in azienda, auspicando che la pressione sociale dia risultati virtuosi (anche in Italia qualche tenue cenno all’informazione sul punto c’è, ma solo per i cda). Da noi un simile approccio non servirebbe: troppo differente è la situazione di partenza e più forti gli stereotipi che occorre sconfiggere. Negli Usa, il Dodd-Frank Act del 2010, la legge firmata da Barack Obama in risposta alla grande crisi, contiene una norma, l’articolo 342, che delega le agenzie federali a dettare regole in materia. Poco tempo fa la Sec (Securities and Exchange Commission – l’autorità di vigilanza della borsa) e altre autorità amministrative hanno emanato le linee guida alle quali intendono attenersi per l’industria finanziaria. In sostanza, si lamenta un eccessivo affidamento all’autoregolamentazione e alla volontarietà nella predisposizione e diffusione di informazioni sulla diversity e l’autovalutazione delle politiche adottate rischia di essere poco incisiva e variabile da emittente a emittente, quindi difficilmente comparabile. La mancanza di precisi standard e definizioni per misurare la presenza di minoranze e donne, inoltre, rende pressoché impossibile l’attuazione degli obiettivi del legislatore federale. Con una mossa inusuale, anche il commissario della Sec – Luis Aguilar (un ispanico) – ha reso pubblico un forte dissenso da questo approccio. Aguilar rileva come l’industria finanziaria sia maschilista e chiusa: cita che mentre solo il 31 per cento degli addetti del settore sono maschi bianchi, la percentuale sale al 64 per cento tra i top manager. Minoranze etniche e donne sono rispettivamente il 30 e il 59 per cento della forza lavoro, ma tra i top manager sono solo il 10 e il 29 per cento. Conclude quindi che le blande e non vincolanti informazioni richieste sono insufficienti e non rispettano lo spirito del Dodd-Frank Act e auspica l’adozione di un vero obbligo di informazione dettagliato dall’autorità di controllo, individuando esplicitamente le società che non adempiono correttamente. Arrivando anche a suggerire che, almeno la Sec, si discosti dalla strada seguita da altre agenzie di regolamentazione. Fermo restando che in Italia le quote obbligatorie per i cda sono opportune, l’esperienza americana offre però almeno due spunti di riflessione. Primo: occorrerebbe fare qualcosa anche per le posizioni dirigenziali, non solo per il cda. Un posto da amministratore è visibile e (forse) prestigioso, ma spesso un po’ simbolico e non molto incisivo per promuovere maggiore uguaglianza nell’organigramma. Gli amministratori non esecutivi donna hanno ben poca voce su chi viene assunto o promosso nella gerarchia aziendale interna (generalmente non ne sono nemmeno informate); sono i dirigenti, che vivono quotidianamente in società, ad avere maggior rilievo nella battaglia contro le discriminazioni a tutti i livelli. Secondo: forse anche in Italia e in Europa, ci sono altri gruppi da tutelare oltre alle donne, come minoranze etniche e persone lesbiche o gay. Nessuno suggerisce di imporre quote a favore di diverse categorie anche per i dipendenti, ma si potrebbe almeno pensare a regole che richiedano alle società quotate la pubblicazione di informazioni sulla diversity della forza lavoro, in particolare per l’alta dirigenza, nella relazione annuale sul governo societario.
* Questo scritto è dedicato alla memoria di mia zia, Laura Ventoruzzo, recentemente scomparsa, e alle molte donne come lei che hanno perseguito con onestà, determinazione e passione i propri obiettivi professionali.

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  1. Marco Trento

    Non vi è nessuna solida evidenza empirica che le quote rosa portino vantaggi alle aziende e alla società, e quello che si nota nelle università, dove in molti paesi le quote sono purtroppo la regola, è che esse generano abbassamento della qualità. Ci sono posti dati a incompetenti solo perché sono donne. Solo il merito deve valere, in ogni settore. Ma l’agguerrita lobby femminista, ispirandosi a una ideologia sessantottina vetero-marxista che pretende eguaglianza di risultati (invece che di opportunità), impone il politicamente corretto e le quote rosa, ci costringe perfino a cambiare il linguaggio perché, secondo loro, veicola stereotipi. La verità è che le femministe non lottano contro gli stereotipi: semplicemente ne introducono di nuovi, per esempio la donna vittima di complotti, la donna indipendente, brava ma discriminata, la donna che “non deve chiedere mai”, quella che lotta contro (presunte) ataviche discriminazioni. Fantasie. Nelle aziende e all’università si premi il merito e basta; perché un’azienda dovrebbe preferire un maschio mediocre a una donna brillante? Perderebbe profitti. Alla lobby femminista interessa generare rendite di posizione, privilegi, cricche di potere per perpetuare se stessa. E già si vedono all’orizzonte nuove lobby che battono cassa, a iniziare dagli omosessuali e minoranze religiose. E così via. E allora perché non le quote per i bruttini? È un fatto che statisticamente i belli guadagnano di più. A quando le quote “Bridget Jones”?

    • Marco Ventoruzzo

      Gentile Signor Trento, La ringrazio delle Sue osservazioni. Sebbene non condivida quello che scrive, le opinioni su questo tema possono certo divergere, anche se sarebbe preferibile su basi più solide. Mi chiedo però quali dati abbia per affermare che le quote abbassano la qualità di università (dove peraltro in genere non sono previste) e aziende. Alcune ricerche (http://www.academia.edu/5172918/Gender_Quotas_and_the_Quality_of_Politicians) indicano che in politica è vero il contrario, e non ho ragioni per pensare che sia diverso nell’accademia o negli affari; ed è contraddetto dall’esperienza quotidiana di chi opera in questi settori, me compreso, in cui la presenza femminile è sicuro elemento di ricchezza ed eccellenza. Se poi mi consente una battuta, è curioso che pensando a un esempio di discriminazione dei “bruttini”, come scrive, Le venga in mente proprio Bridget Jones, una donna, forse involontariamente riconoscendo le difficoltà di una donna non particolarmente attraente. E’ vero che molti studi suggeriscono che i “belli” hanno un premio economico sul lavoro (Hamermesh), ma è interessante che almeno secondo alcune serie ricerche questo premio – o penalizzazione – sia in diversi casi più alto per donne belle – o brutte – che per gli uomini. Non sono questi indici di distorsione nella valutazione delle qualità sostanziali e professionali, in un mondo ancora prevalentemente maschile, che meriterebbero di essere superati?

  2. Savino

    L’unica quota che finora ha prevalso nel mondo del lavoro è quella dei soliti raccomandati (fra i laureati, ma, di recente, perfino nei lavori non specializzati). Colpa dei criteri di selezione e colpa della leggerezza e delle incapacità dei selezionatori di risorse umane. Le donne, in tutto questo, sono le più penalizzate tra i penalizzati, come elevato handicap lo hanno i più giovani. Tutto questo è assai rischioso per l’economia e assai pericoloso per i parametri del vivere civile. I selezionatori di risorse umane sono pregati di fare le persone serie e rigorose, perchè hanno un ruolo fondamentale nella nostra società e non possiamo permetterci di restare nel pantano della crisi anche a causa delle loro scelte sbagliate e/o in mala fede.

  3. Andrea

    Articolo basato sull’ideologia femminista; nella realtà è falso che le donne vengano pagate di meno a parità di lavoro, mentre è vero che gli uomini sono il 93% dei morti sul lavoro.

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