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Qualcosa si muove sull’acqua

Lentamente, il settore idrico si rimette in moto. C’è una moderata ripresa degli investimenti, anche se le differenze tra aree del paese sono ancora forti, specie nella quota di investimenti pubblici e privati. L’esperienza di Napoli, quella del veneto e i buoni propositi dell’Autorità di settore.

Investire sull’acqua
Passata l’ondata emotiva che ha accompagnato e seguito il referendum, un po’ alla volta, il settore idrico si rimette in moto.
Sebbene i dati siano ancora frammentari, sembra delinearsi una certa ripresa degli investimenti (tabella 1): per quelli finanziati dalla tariffa, il valore atteso per il 2015 è di 1,5 miliardi di euro (+55 per cento rispetto al 2012).
In termini pro-capite, si passa da 16 a 25 euro l’anno. Le differenze tra aree sono ancora rilevanti: il dato maggiore si riscontra nel Nord-Est (41 euro l’anno), mentre nelle Isole siamo praticamente fermi al palo. A questi valori vanno aggiunti gli investimenti finanziati da contributi pubblici, per i quali manca tuttavia un dato riassuntivo (sono sicuramente più alti nel Mezzogiorno, compensando in parte le differenze).
Il dato medio, sia nazionale che per macro-area, è tuttavia fuorviante. Un’analisi più puntuale sulle prime dieci aziende per popolazione servita (complessivamente circa 22 milioni) mostra che il dato pro-capite (inclusi in questo caso i contributi pubblici) si aggira sui 36 euro l’anno (tabella 2), a dimostrazione che dove il sistema è partito davvero, i risultati sono migliori, mentre la media nazionale risente anche delle molte realtà che, per diversi motivi, non sono ancora riuscite a dare attuazione a quanto previsto nei piani.
Le tariffe hanno continuato a crescere. Secondo Cittadinanzattiva, nel 2013, una famiglia di tre persone spendeva in media 333 euro l’anno: ma la dispersione è alta, passando da un minimo di 143 (Molise) e di 213 (Lombardia) a un massimo di 498 (Toscana). L’incremento medio negli schemi tariffari approvati dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico è stato del 2,7 per cento tra 2012 e 2013 e del 6,4 per cento nel biennio successivo. Non è ancora un valore di equilibrio: Utilitatis stima che, per generare i flussi di cassa necessari a sostenere gli investimenti pianificati (50 euro l’anno pro-capite) le tariffe debbano raggiungere i 3 euro al metro cubo almeno, ossia crescere ancora di un buon 50 per cento. Del resto, negli altri paesi UE si investe ancora di più (80-100 euro l’anno pro-capite) e le tariffe sono da una volta e mezzo a due volte più elevate delle nostre.
Il referendum ha avuto se non altro il merito di rendere improrogabile la riforma. Il nuovo assetto regolatorio, pur incompleto in alcuni tasselli, si è mostrato più coerente con l’esigenza di rilanciare gli investimenti e garantire l’equilibrio finanziario dei gestori, ridestando così l’attenzione dei finanziatori.
L’approccio dell’Autorità ha il pregio di costringere le aziende a guardarsi allo specchio senza più alibi ed è adeguato a consentire un’equilibrata finanziabilità dei piani, ma solo alle realtà efficienti. Si potrà discutere all’infinito se un’azienda speciale interpreti il “bene comune” meglio o peggio di una spa pubblica al 100 per cento o di una multiutility quotata, ma poi la prova sovrana resta quella del mercato.
Il caso di Napoli e l’esperienza veneta
Il caso napoletano è emblematico: finora Abc – vetrina del movimento referendario – non sembra aver migliorato granché rispetto alla precedente gestione; l’essere azienda speciale non ha impedito che il comune, all’occorrenza, saccheggiasse i suoi utili e le sue riserve; gli investimenti realizzati restano solo quelli finanziati da contributi a fondo perduto. Né risulta che l’esperimento di gestione partecipata abbia partorito molto di più di un comitato consultivo, riunito poche volte e per discutere soprattutto di questioni sindacali. Temi come il piano di investimenti, la tariffa, la qualità del servizio o il finanziamento attraverso qualcuna delle modalità care ai comitati sono invece del tutto assenti.
In un settore come quello idrico, le realtà che funzionano sono quelle capaci di accedere al credito, presentando un piano economico-finanziario sostenibile e offrendo ai finanziatori adeguate garanzie di solidità. In passato, solo pochissime aziende erano riuscite a costruire un finanziamento strutturato per tutto il periodo di affidamento. E la gran parte di queste erano quelle in grado di sostenere con altri flussi di cassa il rischio che i finanziatori si assumevano: dunque le multiutility quotate e poco altro. Ancora oggi, sono queste aziende e le società miste da loro partecipate a offrire i risultati migliori (si veda la tabella 2), ma anche nel mondo delle aziende pubbliche sono sempre più numerose le realtà che hanno ottenuto finanziamenti di medio-lungo termine per realizzare gli interventi pianificati.
Di particolare interesse è l’esperienza veneta, dove un pool di aziende in house ha dato vita a un veicolo finanziario integrato, rafforzato da mutue garanzie e dalla messa in comune del flusso di cassa servito come garanzia, pur mantenendo ciascuna azienda la propria autonomia. Il “bond collettivo” emesso è stato poi sottoscritto dalla Banca europea degli investimenti. Un esempio che mostra come anche all’interno del sistema pubblico sia possibile costruire schemi finanziari coerenti con le regole del mercato.
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(*) il dato 2012 include altre gestioni, mentre per 2013 e 2014 include solo l’Ato 2 Roma
Fonte: elaborazione dell’autore su dati Aeegsi e Il Sole-24Ore.

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  1. Federico

    Articolo apodittico che presuppone ciò che intende dimostrare. Le informazioni fornite su quel caso veneto non autorizzano a immaginare alcuna magia del mercato: semplicemente, delle aziende pubbliche si sono coalizzate e hanno attratto un investimento pubblico da chi ha fondi illimitati (la BEI). D’altro canto, è ben noto che l’aggregazione è indispensabile; l’ideologia prima del referendum stava nel propagandare che solo la privatizzazione l’avrebbe resa possibile.

    • Antonio Massarutto

      La campagna referendaria ha martellato e continua a martellare sul fatto che perfino le gestioni in forma di SpA 100% pubblica (in house) sarebbero “troppo private” per il Bene Comune. Oppure me lo sono sognato io? L’esperienza sta dimostrando invece che un sistema costruito in modo coerente con le regole del mercato (cosa ben diversa dalla “privatizzazione”) è in grado di attrarre finanziamenti, mentre le aziende speciali rischiano di riprodurre i baracconi di un tempo. La BEI, per sua informazione (come del resto la Cassa DDPP) non è un “finanziatore a fondo perduto”, ma una banca che opera secondo regole finanziarie ben precise, e tali da escludere qualsiasi forma più o meno mascherata di bailout. Solo a queste condizioni dispone di risorse “illimitate”. E per l’appunto, il caso veneto mostra che ci si può finanziare attingendo al mercato dei capitali e non alle tasche dei contribuenti, a condizioni vantaggiose e sostenibili. Non serve “essere privati”, ma bisogna in un certo senso comportarsi come se lo si fosse. Il movimento referendario se ne faccia una ragione, invece di inseguire le farfalle.

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