L’Europa sembra avere capito che occorre cooperare per gestire il dramma dei migranti. La soluzione al problema va cercata facendo dell’asilo una politica comunitaria per cui i vari paesi dovrebbero ricevere aiuti europei in proporzione al numero delle persone accolte.
I profughi e le loro vicissitudini sono stati i maggiori protagonisti delle cronache estive e non sembra vicino il giorno in cui usciranno dalle prime pagine dei giornali. Se le tragedie e le vite perdute sono un triste elemento di continuità, la novità principale dell’estate è la scoperta che il fenomeno non riguarda solo l’Italia. Gli arrivi per mare interessano anche la Grecia, mentre altri flussi seguono rotte terrestri, risalendo attraverso la Bulgaria, la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria verso i paesi dell’Europa settentrionale. In primis la Germania, che ha dato in questi giorni un importante segno di responsabilità umanitaria: malgrado 200 attacchi contro gli immigrati dall’inizio dell’anno, la cancelliera Merkel ha annunciato che tutti i profughi siriani giunti nel paese riceveranno lo status di rifugiati. Proprio oggi è stato convocato un vertice tra i due maggiori partiti, Cdu e Spd, su come organizzare i percorsi d’integrazione dei rifugiati dopo la prima accoglienza. Va aggiunto che la Germania ha già ricevuto circa 250 mila domande di asilo dall’inizio dell’anno, 547 mila dal 2011 contro circa 150 mila dell’Italia (fonte: New York Times). La retorica dell’Europa sorda e indifferente andrebbe quanto meno circostanziata.
I paesi che fanno muro
In senso opposto si sono invece mossi altri governi. Il Regno Unito vuole bloccare a tutti i costi gli accessi sul suo territorio, individuando Calais come il campo di un’impari e disonorevole battaglia contro le persone in cerca di asilo. I governi ungherese e bulgaro al dramma dei profughi intendono rispondere con la costruzione di nuovi muri. Una tecnologia antica e rudimentale, che oggi come ieri serve a dividere noi e gli altri. Pensavamo che in Europa con la caduta del muro di Berlino l’epoca dei muri fosse finita, invece ne sorgono degli altri. Non più però per frenare la fuga delle persone verso la libertà, ma per impedire loro di cercare scampo da guerre e persecuzioni.
Cerchiamo allora di ragionare sulle possibili risposte a questa sfida del nostro tempo. Occorre distinguere tre aspetti: il salvataggio, l’accoglienza, l’integrazione. Ma serve anzitutto una premessa. I profughi nel mondo hanno raggiunto nel 2014 la cifra record di 59,5 milioni. Di questi, l’86 per cento è accolto in paesi del cosiddetto Terzo Mondo. I paesi più coinvolti nell’accoglienza sono Turchia (1,59 milioni), Pakistan (1,51 milioni) e Libano (1,15 milioni, ma le fonti locali parlano di 1,5-2 milioni) (dati Acnur, aggiornati a fine 2014). L’Ue è toccata dunque solo marginalmente da questi flussi: in realtà, talvolta una frangia dei movimenti di profughi riesce ad approdare sul territorio europeo, anche perché a quanto pare la Turchia non riesce o non intende più trattenerli. Spesso, particolarmente nel caso dei siriani, si tratta di classi medie o addirittura di benestanti, travolti dalla guerra civile. Quanto alla sostenibilità, andrebbe ricordato che il Libano accoglie secondo l’Acnur 232 profughi ogni mille abitanti, la Svezia nove, l’Italia poco più di due.
Salvataggio
Posta questa premessa, si tratta di affrontare in modo razionale e coordinato le tre fasi sopra accennate. La prima è il salvataggio. Non è vero che i profughi partivano perché c’erano le navi italiane pronte a soccorrerli. Le restrizioni della prima fase di Triton hanno provocato un’impennata delle vittime. Ora si è tornati a un impegno più convinto e condiviso anche da altri partner europei, ma accompagnato da bellicosi proclami sulla lotta all’immigrazione illegale. Se si vuole davvero debellare il business dei cosiddetti scafisti occorre istituire altre modalità per la presentazione delle domande di asilo e per l’arrivo sul territorio europeo: i cosiddetti corridoi umanitari, o il rapido reinsediamento di chi ha trovato un primo approdo in paesi prossimi alle aree di crisi. In ogni caso, andrebbe eliminata dal lessico politico e mediatico la parola emergenza: se un fenomeno si ripete da anni, con picchi stagionali prevedibili, non è più un’emergenza che arriva inattesa ma un dato con cui confrontarsi stabilmente, organizzando per tempo le misure necessarie.
Accoglienza
Segue l’accoglienza. Qui l’Italia è sotto tiro perché spesso non procede a una rapida e coercitiva identificazione degli sbarcati, tollerandone il transito verso il Nord Europa. La collaborazione dei partner europei è invece subordinata a questa condizione, da rendere cogente mediante l’intervento di funzionari inviati da Bruxelles. Significherebbe di fatto un commissariamento del nostro paese nella gestione del dossier rifugiati. Le quote previste a carico di altri sono un primo passo nel senso del superamento degli accordi di Dublino, ma striminzite come sono lascerebbero poi di fatto a carico dei paesi di primo ingresso gran parte dell’onere dell’accoglienza. L’accoglienza attuata in Italia è senz’altro da migliorare, superando la concentrazione dei rifugiati nelle regioni meridionali, ma va ricordato che un conto sono i numeri degli sbarcati, un altro quelli assai minori dei profughi che domandano effettivamente asilo nel nostro paese. I profughi ripresi in luoghi come le stazioni di Roma e Milano sono in realtà quasi tutti persone in transito. Se non desiderano fermarsi in Italia, non si vede perché e come trattenerli a forza, contro la loro volontà.
Integrazione
Pensare ai rifugiati come a scarti ingombranti da suddividere per quote è dunque sbagliato per un altro e più profondo motivo, che ha a che fare con le politiche d’integrazione: i rifugiati non sono cose, e tanto meno scarti che si lascino stoccare in qualche luogo. Hanno legami, aspirazioni, conoscenze, che li conducono a preferire certi luoghi rispetto ad altri, dove pensano di potersi integrare meglio: spesso perché vi risiedono dei parenti in grado di aiutarli. Tra l’altro non vi è garanzia che una volta collocati in un determinato paese, siano disposti a rimanervi.
La soluzione al problema andrebbe cercata facendo dell’asilo una politica comunitaria: i rifugiati dovrebbero essere liberi di insediarsi dove desiderano, i paesi che li accolgono dovrebbero ricevere aiuti europei in proporzione al numero delle persone accolte, a piena copertura dei costi. Non sembra molto difficile, ma la politica di questi tempi sembra prigioniera di un’angusta quanto vana riaffermazione dei confini nazionali. I padri fondatori dell’Europa meriterebbero eredi migliori.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Alberto Lusiani
La soluzione proposta contiene alcuni forti incentivi perversi.
1) i profughi in assenza di altri legami tenderebbero a scegliere il Paesi che offre l’accoglienza migliore e piu’ costosa (ritengo la Svezia)
2) i falsi profughi tenderebbero a scegliere i Paesi piu’ generosi nell’accettare domande che altrove verrebbero considerate senza fondamento
3) i Paesi che per locale democratica inclinazione offrono condizioni migliori (e piu’ onerose) e/o sono piu’ generosi nell’accttare i profughi, avendo costi rimborsati quasi al 100% dal resto d’Europa, avrebbero l’incentivo a spendere ancora di piu’ e ad essere ancora piu’ lassisti nell’accoglimento delle domande.
Come conseguenza ci sarebbe su base europea un aumento dei costi dell’accoglienza e una concentrazione in alcuni Paesi, entrambi secondo me effetti indesiderabili.
In conclusione, le proposte contengono alcuni elementi che rendono l’esito della loro eventuale implementazione particolarmente instabile, non equilibrato e a mio parere indesiderabile.
Tommaso Laporta
I profughi siriani sono disposti a vivere con poco, si accontentano di poco e si sostengono a vicenda. Fra loro vi sono molti lavoratori di ottimo livello. Le aziende italiane ne assumerebbero a bizzeffe, se lo stato non gli vietasse di licenziare i propri dipendenti senza incorrere in spese esorbitanti. Lo stesso vale naturalmente anche per molti giovani italiani.
Certo, se le leggi a “tutela dei lavoratori” (quelli che un lavoro ce l’hanno, non gli altri) fossero abrogate, molti rischierebbero di doversi adattare ad un regime di spesa anche di molto inferiore. Si potrebbe, per aiutare i più bisognosi, costituire un fondo a integrazione dei sussidi statali (sempre che ve ne siano), al quale tutti coloro che vogliono aiutare la popolazione siriana (e non) possano contribuire.
Alla lunga ne beneficierebbero tutti.
AM
Alcuni punti di vista sono condivisibili, ma l’articolo parla genericamente d “profughi”, mentre in realtà vi sono veri profughi e falsi profughi (che sono la maggioranza). I falsi profughi hanno motivazioni comprensibili, ma il loro accoglimento deve essere facoltativo e deve avvenire a condizioni diverse (alloggio e vitto a loro spese). A ben vedere anche i giovani italiani che cercano di emigrare in UK e USA potrebbero essere definiti “profughi economici” come del resto gli indiani che arrivano in Ungheria
AM
E’ basilare la distinzione fra veri profughi e falsi profughi (la larga maggioranza), chiamti anche profughi economici in quanto la scelta di emigrare è stata fatta su considerazioni convenienza economica. Ma allora anche i giovani italiani che cercano di emigrare in UK o USA possono essere definiti profughi economici, solo che al loro arrivo non sono ospitati gratis in hotel a 3 stelle. Ho letto che fra i migranti che entrano in Ungheria vi sono anche indiani, ma non mi consta che l’India sia in guerra e che vi sia una dittatura sanguinaria. In India vi sono ingenti patrimoni che includono interi palazzi a Londra e voluminosi portafogli azionari che controllano imprese in Europa e USA. Ma l’India non segue una politica di redistribuzione attraverso il Fisco?