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L’istruzione (ancora una volta) ci salverà

Il rapporto tra tecnologia e lavoro è storicamente difficile. A volte tanto da far passare in secondo piano i vantaggi che un più diffuso uso delle macchine ha portato alla popolazione. Ancora oggi, però, l’istruzione si dimostra il pilone portante del progresso non solo tecnico, ma anche sociale.

Tecnologia e lavoro: un rapporto difficile
L’ex commissario alla revisione della spesa pubblica Carlo Cottarelli non pare esser riuscito a operare i suoi tagli proprio lì dove sono stati originariamente teorizzati: nonostante l’ormai ubiqua e assodata presenza di email nelle nostre giornate, nei vari ministeri i commessi ancora traghettano fascicoli da un ufficio all’altro.
All’estremo opposto troviamo una società con sede a Hong Kong, la Deep Knowledge Ventures, che invece ha recentemente nominato nel proprio consiglio di amministrazione un algoritmo. Con diritto di voto.
Il rapporto tra tecnologia e lavoro ha da sempre infiammato gli animi di chi, da un parte, cercava di difendere il proprio diritto all’occupazione e di chi, dall’altro, progettava un mondo totalmente automatizzato.
Le forze informatiche che forgiano il nostro presente, come big data e cloud computing, sono solo la punta di un iceberg fatto di macchine che sono arrivate a sfruttare sistemi simil-neurali per imparare, sempre più adatte a svolgere lavoro intellettuale, seppur di basso livello (confronto di contratti legali e semplici diagnosi in ospedale, per esempio). Se per alcuni ci troviamo così alla vigilia di una seconda età delle macchine, altri preferiscono essere più cauti con gli annunci: Matrix è ancora lontana.
David Autor, economista del Mit (Massachusetts Institute of Technology) con un grande interesse per la tecnologia, ha ripercorso alcuni nodi essenziali della questione, così da far luce sull’attuale stato dell’arte.
Perché la gente è spaventata?
Cifre alla mano, negli Stati Uniti il reddito in termini reali di coloro che hanno un titolo di studio superiore al diploma è cresciuto del 90 per cento negli ultimi cinquanta anni, mentre per chi non ha completato le high school è diminuito del 10 per cento. I lavoratori di oggi sono però molto più istruiti e la domanda di competenze di alto livello è in continua crescita. Come già mostrato da Francesco Daveri su lavoce.info, affidandosi a una chiave di lettura che vede crescente diseguaglianza e disoccupazione diffusa, sorge spontaneo il dubbio del lavoratore medio: la tecnologia ci sta rendendo superflui?
L’esempio storico dei luddisti, che sabotavano macchinari quali il telaio meccanico, mostra la grande rilevanza sociale del tema. E passa quasi in secondo piano il fatto che allora i prezzi di molti capi di vestiario scesero, andando quindi a beneficio della popolazione. L’improvvisa mancanza di lavoro in alcuni gruppi sociali è infatti un potente fattore di agitazione, la cui concreta percezione va a contrapporsi ai meno tangibili sviluppi di lungo periodo dovuti al progresso tecnologico. La storia ancora una volta ne dà esempio.
Un processo graduale
Quella delle rivoluzioni tecnologiche è però una lenta ascesa, dove solo retrospettivamente è possibile ammirare l’altezza dei risultati ottenuti. Dal 1890 al 2014 l’occupazione generale, e in special modo quella femminile, è costantemente cresciuta, fatta eccezione per gli ultimi anni di crisi. Allo stesso modo, la parte di reddito spesa in beni essenziali (cibo, abitazione e vestiario) è crollata dall’82 percento al 55 per cento, lasciando ampi margini per il piacere, le medicine e i mezzi di trasporto.
Questo miglioramento delle condizioni di vita ha tuttavia avuto bisogno dell’impulso essenziale dato dall’istruzione, così da garantire alla società il pieno sfruttamento delle nuove potenzialità tecnologiche. Quando sul finire del XIX secolo i contadini americani si resero conto che i loro figli non avrebbero arato campi e allevato bestiame come loro, diedero il via a un enorme impulso dell’istruzione liceale così da garantire alla generazione futura la conoscenza necessaria ad affrontare il mondo dell’industria. “Sarà necessario che tutti sappiano leggere? E saranno tutti sufficientemente intelligenti per completare un livello di istruzione così alto?” si chiesero in molti. Oggi la questione si è traslata al livello universitario, ma la similitudine storica ci impone una attenta riflessione sul futuro dell’istruzione.
Sviluppo economico e sociale
Viviamo oggi in un’altra epoca: dal 1801, ossia dal periodo in cui fu messo in commercio quello che può essere ritenuto il primo processore simbolico, il telaio di Jacquard, il costo dell’esecuzione di un milione di calcoli è crollato abissalmente di 2-3 miliardi di volte. Questo ha portato e continua a portare un grandissimo incentivo economico a sfruttare la tecnologia sempre più, aumentando la produttività e permettendoci di realizzare progetti impensabili anche solo qualche decennio fa. A patto che la società continui ad accrescere il proprio patrimonio di conoscenze proprio con quell’istruzione che ancora una volta si mostra pilone portante del progresso non solo tecnico, ma anche sociale.

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  1. Gabriele

    Il dibattito aperto dai testi di Tyler Owen sulla scomparsa della media (come classe sociale e come reddito nella società americana) si è oggi concentrato sul ruolo dell’innovazione tecnologica nel determinare questi effetti. Mi pare che poco si stia dibattendo sul fatto che la tecnologia, come sempre, è “neutra” in sè, ma, se utilizzata in un determinato contesto, può intensificare caratteristiche che già esistono in una struttura sociale. In un contesto istituzionale in cui non c’è un intervento “politico” che modifica i processi di distribuzione della ricchezza prodotta dalle nuove tecnologie, queste ultime non fanno che intensificare i processi “spontanei” di concentrazione di tale ricchezza. In sintesi, in una società diseguale, l’innovazione tecnologica non fa che aggravare tale diseguaglianza. Rispetto però ad un approccio luddista (di rifiuto estremo dei cambiamenti determinati dall’uso della tecnologia), si potrebbe assumere un approccio “riformista”. Quest’ultimo potrebbe consistere nell’imporre (una volta per tutte, mediante un accordo fra USA ed Europa), alle grandi multinazionali (Google, Facebook, ecc.), di pagare la giusta quota di tasse sui loro ricavi raccolti a livello mondiale. Tutto questo però non a favore degli Stati in cui queste multinazionali hanno sede (ad es. Lussemburgo o Irlanda), ma piuttosto agli Stati in cui queste multinazionali operano la loro raccolta pubblicitaria (quindi anche in Italia, ad esempio).

    • Piero

      Tutto ciò che hai scritto è verosimile, ed è la versione condivisa dal 99% degli esperti e dai 3/4 della gente comune. Quello di cui non tenete conto è che vi basate sulla storia pregressa dell’800 (fase di Lancio del capitalismo) e del ‘900 (fase di sviluppo) in cui i mercati non erano saturi, e quindi la manodopera espulsa dopo un periodo di crisi ciclica poteva esser riassorbita in altri settori, soprattutto servizi.
      E’ per questo che siete destinati a considerare visionaria la mia tesi: questa è la fase numero 3 cioè la maturità dove ormai tutti son pieni di cellulari case e le arance in eccesso son schiacciate dai trattori.
      Con forti diversità tra i paesi, la disoccupazione strutturalmente crescerà in tutto l’occidente (insieme ai debiti) decennio dopo decennio. Gli occupati della VW sono l’effetto dei disoccupati della Fiat, ma il totale sistemico è in sovra-capacità permanente.

      • sottoscritto

        Ciao Piero, esisteranno sempre prodotti e servizi che la gente vorrà acquistare, forse non saranno più televisori, automobili a benzina e nemmeno smartphone. Sono perfettamente certo che tu possa capirlo. Ciao

        • Piero

          Certo che sì ma ci vogliono sempre meno persone.. tutto nasce si sviluppa e declina.. ma chi è dentro ad una forma organizzativa è destinato a credere che quella forma (il capitalismo in questo caso) sia una eccezione storica votato all’eternità (od equilibrio dinamico come ossimoricamente lo definiscono gli esperti).. in CityGroup lo han quasi capito (vedi link).. al residuo 99,9% non son bastati gli ultimi 30 anni e non basteranno neppure i prossimi 30.

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