Lavoce.info

Trattato di libero scambio: in gioco non c’è solo l’economia

Proseguono i negoziati per il trattato transatlantico di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti. Un accordo potrebbe avere rilevanti ricadute economiche e portare a standard normativi comuni. Ma non mancano i rischi. In primo luogo, per la sovranità nazionale e l’occupazione
Il Ttip e la più grande zona di libero scambio
I negoziati per la conclusione del Transatlantic-Trade and Investment Partnership (Ttip) hanno completato il decimo round. Partiti nel 2013, si propongono di creare la zona di libero scambio più grande del mondo attraverso l’abbattimento dei dazi e la convergenza degli standard regolamentari. Un trattato simile era stato già negoziato in ambito Ocse negli anni 1995-1998 (Multilateral Agreement on Investment), ma naufragò a causa del ritiro della Francia e delle proteste dell’opinione pubblica internazionale.
Le trattative riguardano i settori agroalimentare, manifatturiero, chimico-farmaceutico, auto, tecnologie dell’informazione e comunicazione e i servizi, inclusi appalti pubblici, professioni e trasporti. Escludono invece i servizi audiovisivi per superare il veto francese e impedire l’annessione da parte delle majors americane del mercato europeo.
Gli obiettivi della Commissione
L’abbattimento dei dazi non sembra essere la materia più spinosa dal momento che, in media, si aggirano attorno al 2-3 per cento, con talune eccezioni nei settori alimentare o tessile. Tuttavia, a questi costi si aggiungono quelli derivanti da standard normativi e di sicurezza diversi, che assieme a procedure burocratiche non sincronizzate, fungono da barriere non tariffarie che ostacolano i flussi commerciali, più del dazio stesso. Di conseguenza, poiché i dazi sono già a un livello basso, si prevede di ridurre le barriere non tariffarie di almeno il 25 per cento. In questo modo, il Pil dell’Unione dovrebbe crescere dello 0,5 per cento circa su base annua, come indicato dallo studio del Cepr su cui la Commissione europea ha fatto affidamento.
Per i critici, però, le stime dello studio sono inesatte perché, ad esempio, sottovalutano i costi di aggiustamento relativi agli squilibri nelle bilance commerciali (che per alcuni stati membri potrebbero non essere marginali), la perdita di risorse pubbliche derivante dall’abbattimento dei dazi e i costi sociali di breve e medio periodo come la disoccupazione nei settori più vulnerabili. E infatti la stessa Commissione ha riconosciuto che il settore agroalimentare potrebbe soffrire la liberalizzazione in una maniera che lo studio del Cepr potrebbe sottostimare.
Ottimistica appare anche la previsione di una contenuta ricollocazione intra-settoriale della forza lavoro (non oltre lo 0,7 per cento della forza lavoro UE nei dieci anni successivi l’entrata in vigore dell’accordo) e soprattutto l’assunto che i settori in espansione assorbiranno tutti i lavoratori in esubero – che hanno capacità e competenze diverse – nei settori in crisi a causa della maggiore concorrenza. A ciò si aggiunge il rischio che l’incremento dell’interscambio transatlantico avvenga a detrimento di quello intra-UE. E in effetti, le piccole e medie imprese italiane che esportano in Europa potrebbero cedere quote di mercato in favore dei concorrenti americani.
Sarebbe dunque fuorviante pensare che un eventuale accordo porterà benefici per tutti.
I problemi di regolamentazione
Ma oltre agli aspetti economici, in gioco c’è anche la regolamentazione dei mercati, che ha lo scopo di favorire il mutuo riconoscimento delle procedure esistenti per i test di sicurezza, la convergenza verso standard armonizzati per le misure sanitarie e fitosanitarie.
Ciò solleva diverse questioni a cominciare dalla cabina di regia, da affidare a un ente indipendente di nuova creazione: il Regulatory Cooperation Body. Innanzitutto, gli organismi UE (così come gli Stati Uniti) dovrebbero rendere pubblici in anticipo i provvedimenti che si intendono introdurre nell’anno successivo, identificando quelli che possono avere un impatto sul commercio internazionale e sugli investimenti, nell’ambito di un meccanismo bilaterale di monitoraggio denominato Annual Regulatory Cooperation Programme. Anche gli stati membri UE potranno essere chiamati a comunicare agli Stati Uniti gli atti aventi forza di legge che riguardano le aree di comune interesse. Il Regulatory Cooperation Body potrebbe inoltre essere investito di poteri propositivi, col rischio di sottrarre alle istituzioni democratiche l’elaborazione futura delle normative settoriali.
Oggetto di trattativa è anche un meccanismo per la protezione degli investimenti (Investment Protection and Investor-State Dispute SettlementIsds) volto a consentire agli investitori stranieri di intentare causa contro uno stato che adotti misure in contrasto con le loro legittime aspettative di profitto o che si comporti in maniera discriminatoria nei confronti del capitale straniero, scavalcando la giurisdizione domestica in favore di un arbitrato, sulla falsariga di quanto già esiste in ambito World Trade Organization, con la possibilità di ricorrere in appello o di trovare un compromesso extragiudiziale.
Ciò che però desta le maggiori perplessità è la compresenza del Regulatory Cooperation Body e dell’Isds. L’istituto di regolazione e il meccanismo di protezione degli investimenti sembrano infatti rispondere alle esigenze delle grandi imprese, che potranno influenzare le disposizioni che andranno in vigore negli stati, effettuare pressioni o addirittura intentare causa, utilizzando le stesse valutazioni d’impatto fornite dagli stati nell’ambito dell’Annual Regulatory Cooperation Programme.
Né si può tralasciare che gli sforzi transnazionali degli ultimi decenni per la protezione di investimenti e capitale, di cui la trattativa per il Ttip è l’esempio massimo, non sono accompagnati da un comparabile impegno per proteggere il lavoro – limitato, a livello UE, dall’European Globalisation Adjustment Fund – dalle frizioni che la creazione di una zona transatlantica di libero scambio porterebbe con sé.
 

Leggi anche:  Per Netflix una supremazia finora incontrastata

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Nel Mar Rosso non tutte le imprese sono sulla stessa barca

Precedente

Per crescere servono investimenti pubblici. Di qualità

Successivo

Il Dieselgate è anche una questione di regole

  1. davide445

    Gli USA come sempre pongono il dogma del libero mercato come testa di ponte nel proporre accordi (dopotutto perché rifiutarli, sarebbe una offesa al dogma! quanti premi nobel americani hanno scritto sui benefici del libero mercato?) che gioverebbero soprattutto a loro, dato che una asimmetria esiste sempre.
    Beneficerebbe anche la continua imposizione della loro visione del mondo e della società, che negli scorsi anni non solo ha visto aumentare gli squilibri, validare una mobilità sociale ben lontana dallidea del “paese delle opportunità” ma vede anche le società no profit creare pià posti di lavoro del for profit.
    Forse gli Europei dovrebbero prendere coscienza che in fatto di economia magari gli Stati Uniti hanno da insegnarci, ma in fatto di qualità della vita sono ancora parecchio indietro e che noi dovremmo fare i nostri interessi, anche se paesi come la Germania finiranno per accettare a questo accordo.

  2. Federico Diamantini

    Sempre peggio, direi! Mi chiedo a questo punto cosa servano gli Stati e la democrazia (se mai esistita): “cabina di regia, da affidare a un ente indipendente di nuova creazione: il Regulatory Cooperation Body”….
    E soprattutto:”Oggetto di trattativa è anche un meccanismo per la protezione degli investimenti (Investment Protection and Investor-State Dispute Settlement – Isds) volto a consentire agli investitori stranieri di intentare causa contro uno stato che adotti misure in contrasto con le loro legittime aspettative di profitto”
    Ma serve veramente un commento?

  3. PMC

    Non mi è ben chiaro dall’articolo, quale vantaggio io ho oggi, come consumatore a continuare a subire (lievi) dazi su prodotti Usa e a non poterne magari acquistare altri per via delle normative differenti.
    E neanche mi è chiaro perché un’impresa europea rischi grosso trovandosi un concorrente in casa, ma non abbia al contempo alcuna opportunità in più nell’avere a disposizione la ricca clientela Usa.

  4. lorenzo

    grazie per l’articolo su un tema rimasto nell’ombra fino a poco fa e su cui comunque pochi parlano con cognizione di causa. Dove si può leggere il testo della bozza di Accordo in italiano o almeno in inglese? credo sia importante che gli studiosi divulghino sempre il link alla URL pertinente, in modo che gli interessati possano leggerselo e eventualmente arricchire il dibattito

  5. ivan b

    Grazie Andrea. da tempo mi chiedevo quali potessero essere i vantaggi per i consumatori ed i contribuenti europei del TTIP. dopo le miserevoli vicende dello spionaggio industriale fatto del “grande orecchio” ECHELON degli anni Ottanta e Novanta ed il Wikileaks sullo spionaggio fatto dalla NSA con la scusa dell’antiterrorismo non mi fido. spero che non passi e se sì, soprattutto per la sicurezza alimentare, mi procurerò un campo dove coltivare di persona ciò che intendo mangiare.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén