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Quella riduzione dell’Ires che le banche non vogliono

L’Ires scende dal 27,5 al 24 per cento. Una buona notizia? Non per tutti. Perché comporta la svalutazione di una voce dell’attivo a bilancio che interessa la generalità delle imprese. Ma per le banche la situazione è ancora più complessa. E la soluzione prospettata non è delle migliori.
Scende l’Ires, ma non tutti sono contenti
C’è una regola seguita indistintamente da tutti i governi quando le necessità di fare cassa si fanno più stringenti: prendere i soldi dove ci sono. E siccome le banche non possono fare a meno di avere certe liquidità disponibili, è a loro che ci si rivolge quando la casa brucia. Basti pensare, per dire, all’imposta sul patrimonio netto (1992) o all’aliquota Irap differenziata (1998) o all’allungamento quasi all’infinito della deducibilità delle svalutazioni di crediti (dal 1974 in avanti). Sennonché questa extrema ratio porta con sé obblighi di riconoscenza e prelude a ricambi di cortesia da velare al meglio (e talvolta da trasferire nell’ombra).
È quanto sta avvenendo anche in questi giorni e tutto gira intorno, incredibile ma vero, alla riduzione dell’Ires dal 27,5 al 24 per cento. Chiarito che se ne parla dal 2017 in poi, resta il tema di valutare qual è l’impatto dell’intervento sui bilanci delle imprese.
In prima battuta parrebbe positivo, visto che avvicina l’Italia al club dei meno esosi. Ma basta guardare un po’ più da vicino per avvertire qualche mugugno. La stragrande maggioranza delle imprese italiane, infatti, ha iscritto in bilancio un “credito per imposte differite attive” (cosiddette Deferred Tax Assets o Dta). Il fenomeno è il portato di un computo del reddito imponibile che tende generalmente a spalmare la deduzione di alcuni costi (prevalentemente accantonamenti di esborsi futuri o svalutazioni di attività) in più esercizi, ancorché imputati al bilancio di un anno solo. Ma può derivare anche dall’esistenza di perdite fiscali di precedenti esercizi non compensate ancora con gli imponibili di quelli successivi.
Le Dta non sono, quindi, un vero e proprio credito nei confronti dell’erario: rappresentano, più esattamente, una posizione soggettiva favorevole che consente di non pagare imposte sugli imponibili futuri fino a compensazione di quelli che non è stato possibile dedurre in passato. Il loro valore è dato, pertanto, dal beneficio che tali posizioni trasferiscono sugli esercizi successivi ed è condizionato alla ragionevole aspettativa che nel corso di questi si realizzino effettivamente redditi imponibili idonei a utilizzarle. Consegue che il valore della Dta è pari all’aliquota Ires vigente al momento dell’utilizzo applicata al monte deduzioni ancora disponibile. Se l’aliquota scende, si riduce conseguentemente il valore della Dta. La riduzione dell’Ires dal 27,5 al 24 per cento comporta, quindi, la svalutazione di una voce dell’attivo – crediti per Dta – che interessa la generalità delle imprese italiane. Di qui i mugugni.
Perché le banche sono speciali
Ma le banche sono speciali. Nel 2010, infatti, la competente Authority europea ha disposto un filtro – ai fini della determinazione degli indici di capitalizzazione – per la voce Dta. Ne è derivata una potenziale riduzione del livello di capitalizzazione (e quindi possibilità di impiego) delle banche con elevata componente dell’attivo attribuibile a Dta. La penalizzazione colpiva violentemente le banche italiane alle quali era stato imposto (per fare cassa) di dedurre le svalutazioni di crediti in diciotto anni anziché in quello di imputazione in bilancio. Per evitare che si affannassero (specie quelle più traballanti) in una ricerca disperata di capitali, si è stabilito – con l’articolo 2, commi da 55 a 58 del decreto legge 225/2010 convertito dalla legge 10/2011 – che le banche che presentavano conti in perdita (civilistica o fiscale) trasformassero le Dta (ma solo quelle relative a svalutazioni di crediti o ad ammortamenti di avviamenti) in veri e propri crediti verso l’erario: in crediti cioè immediatamente spendibili per compensare debiti di qualsiasi genere verso il fisco, quali l’Iva, le ritenute e i contributi sociali. Consegue che chi ha trasformato o è oggi nella condizione di trasformare le Dta in crediti veri verso l’erario non subisce solo una penalizzazione di ordine contabile, ma vede svanire cassa ormai spendibile. La situazione riguarda non solo banche in crisi, ma anche istituti ben solidi che hanno semplicemente deciso di pulire i propri bilanci da posizioni deteriorate e che ne hanno sopportato una forte incidenza sui relativi risultati.
Il problema, insomma, è serio perché è interesse del sistema trovare una soluzione che da un lato incentivi le pulizie di bilancio; dall’altro non penalizzi ulteriormente chi si è già messo su questa strada.
La soluzione che si va delineando, però, ha tutta l’aria della nuova toppa. In soldoni, si propone di lasciare solo per le banche l’aliquota Ires al 27,5 per cento, così da mantenere intatti i valori delle Dta, sia quelle da trasformare in veri crediti d’imposta che quelle da mantenere iscritte in bilancio. Considerato però il danno che ne deriverebbe per i loro redditi futuri – che diventerebbero più tassati rispetto a quelli di altri settori produttivi -, si ipotizza di eliminare la parziale indeducibilità degli interessi passivi (oggi del 4 per cento) prevista per le banche. La misura resta però per tutti i settori diversi da quello bancario – sia pure con diversi criteri di computo – e ciò darebbe luogo a uno squilibrio di segno contrario.
Ma davvero non c’è una soluzione migliore?

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Il Punto

  1. Alessandro Bellotti

    Una soluzione ci sarebbe: far lavorare le PMI come se fossero in Germania. Il comico è che in Germania le tasse sulle società sono più alte che in Italia.
    Nel nostro paese sono molto diverse le deduzioni: auto aziendali, interessi passivi ed altro non sono praticamente deducibili per cui si pagano tasse su non deducibilità.
    Occorre un sistema fiscale che consenta alle PMI Italiane di autofinanziarsi. Occorre cioè che un impresa in utile, una volta pagate le tasse, non vada, come spesso succede, in perdita.
    Non serve alle PMI del paese una riduzione dell’Ires. Servono condizioni al contorno ‘tedesche’.

    • Maurizio Cocucci

      In Germania la pressione fiscale (Unternehmensbesteuerung) sulle società di capitali, stando ai dati del Ministero delle Finanze tedesco, è del 29,83% mentre in Italia del 31%.

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