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Il 2015 dell’occupazione

Le fonti ufficiali e amministrative convergono su alcuni punti per quanto riguarda la dinamica dell’occupazione nel 2015. Aumentano gli occupati, soprattutto nei servizi e nel lavoro dipendente. In calo i rapporti di collaborazione, mentre sono consistenti gli effetti della decontribuzione.

La dinamica dell’occupazione

Sulla dinamica dell’occupazione nel 2015 abbiamo ormai a disposizione numerose informazioni statistiche aggiornate al terzo trimestre o anche a ottobre. Alcune evidenze si possono cominciare a considerare acquisite: i due mesi che mancano alla fine dell’anno potrebbero determinare qualche correzione, ma non alterare i segni dei fenomeni.
Dall’esame congiunto delle varie fonti ufficiali (Indagine sulle forze di lavoro Istat e dati di contabilità nazionale) e amministrative (Inps-Osservatorio sulla precarietà; ministero del Lavoro e network SeCo per le comunicazioni obbligatorie delle imprese ai centri per l’impiego) si può delineare il quadro che di seguito sintetizziamo.
Un punto sembra ormai certo e assodato: gli occupati complessivi sono aumentati. La variazione, comunque calcolata (occupati o unità di lavoro o posizioni lavorative), rispetto all’anno precedente si aggira sulle 200mila unità. Non si tratta di una dimensione tale da far scordare la dura riduzione imposta dalla crisi, né il ritmo del recupero è tale da assicurare sugli sviluppi futuri: ma è comunque una netta inversione di rotta.
Un secondo punto sul quale c’è convergenza è la caratterizzazione settoriale dell’incremento, che risulta sostanzialmente dovuto ai servizi, mentre per le costruzioni, pur rallentata, prevale ancora la tendenza riflessiva e il manifatturiero risulta, per ora, aver (solo) arrestato, dopo un lungo periodo, il processo continuo di ridimensionamento.
Un terzo elemento si può dare per assodato: la crescita si è prodotta nell’area del lavoro dipendente mentre l’insieme (eterogeneo) del lavoro indipendente è rimasto al palo.

Tipologie dei contratti

Questione controversa è invece l’apporto alla crescita delle diverse tipologie di contratti di lavoro. Dal punto di vista delle politiche del lavoro, l’anno è stato caratterizzato dall’attenzione agli effetti dell’esonero contributivo per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, a partire da gennaio 2015, e dal primo impatto del Jobs act su diversi aspetti, in primis la revisione, in vigore da fine marzo, della normativa sui licenziamenti (contratto a tutele crescenti) e le restrizioni, attivate da giugno, per alcune forme di rapporto di lavoro parasubordinato (contratti a progetto, associazione in partecipazione). Tutti questi elementi convergono, di fatto, nell’incentivare o comunque favorire le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, riducendo il costo mensile per i primi tre anni e rendendo certo il costo di una risoluzione per licenziamento. È dunque logico che a questo aspetto si dedichi una particolare attenzione.
I dati amministrativi (Inps, ministero del Lavoro, network SeCo) hanno evidenziato il netto incremento sia del volume di nuove assunzioni a tempo indeterminato sia del volume di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (tabella 1).

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Nello stesso periodo, il volume delle assunzioni sia con contratti di apprendistato sia con contratti a tempo determinato è diminuito (Inps, primi dieci mesi del 2015) o modestamente aumentato su base annua (ottobre 2014-settembre 2015), parallelamente a un’analoga crescita delle cessazioni (regioni SeCo). Il maggior volume di assunzioni si riflette nelle variazioni dello stock dei rapporti di lavoro in essere: i grafici 1 e 2, pur scontando il diverso universo di osservazione territoriale e la diversa base settoriale (Inps non include agricoltura e settore pubblico), evidenziano che la dinamica finalmente positiva risulta chiaramente trainata dai contratti a tempo indeterminato. Tanto per Inps quanto per le regioni SeCo le posizioni di lavoro a termine risultano invece in flessione e lo stesso si registra per l’apprendistato. Aggiungiamo che i dati amministrativi attestano chiaramente pure la riduzione del ricorso sia ai rapporti di lavoro intermittente (come ormai accade dal 2012) sia ai rapporti di collaborazione (-20 per cento su base annua) mentre è cresciuto fortemente l’utilizzo dei voucher.

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Nei dati Istat non emerge ancora nitidamente la crescita del tempo indeterminato: sembra anzi che l’incremento dei rapporti a termine sia più rilevante per spiegare la crescita occupazionale. Come peraltro si osserva nella tabella 2 le variazioni tendenziali degli occupati nella distribuzione tra occupati a termine e occupati a tempo indeterminato oscillano di mese in mese. E occorre sempre ricordare che stiamo parlando di variazioni in valori assoluti che sono sotto quella soglia di consistenza tale da poter essere accertata con sicurezza anche da un’indagine campionaria, come quella sulle forze di lavoro.

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(1) Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino Alto Adige, Marche, Campania, Umbria, Emilia Romagna

Effetti della decontribuzione

Del resto, se quest’anno i rapporti di lavoro a tempo indeterminato non fossero aumentati in termini di flusso e di conseguenza anche in termini di stock (è impensabile infatti immaginare una parallela e contestuale moria, con la riduzione delle durate dei tempi indeterminati alla stregua del somministrato o della maggioranza dei rapporti a termine) significherebbe che un incentivo triennale pari al 30 per cento del costo del lavoro non ha molto peso né appeal. Certificherebbe una conferma di non nuove teorie sul salario come variabile indipendente (dal suo costo). Così non è stato. La decontribuzione – che, basandoci sui dati Inps, possiamo stimare a fine anno supererà agevolmente il milione (tra nuovi rapporti a tempo indeterminato e trasformazioni) – ha avuto effetti consistenti e consegna al 2016 un trascinamento occupazionale positivo: una fiammata di assunzioni a tempo indeterminato ha effetti indubbiamente più duraturi di una analoga dovuta ai rapporti a termine, come accaduto nel 2014 con il decreto Poletti.

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  1. Ottobre 2014, avevano il lavoro 14.515.000 persone
    Ottobre 2015, avevano il lavoro 14.527.000 persone
    Jobs act costato 3 miliardi
    Risultato, ogni posto in più è costato al contribuente italiano 250.000 €
    Non le sembrano un po’ troppo costosi quei posti di lavoro?
    Pensi, che persino al renzi debbono essere sembrati troppo cari , se nel 2016 ha drasticamente ridotto gli incentivi

  2. Michele

    I dati ISTAT mi sembrano molto più solidi e comprensibili (nei metodi di rilevazione e nella loro significatività) dei dati INPS. Quattro profili emergono: 1) l’occupazione, se cresce, cresce a ritmi bassissimi 2) la crescita è principalmente fatta con lavoro precario 3) la libertà di licenziamento introdotta con il jobact non crea occupazione 4) la decontribuzione è un regalo alle imprese che è andato esclusivamente ad aumentare i profitti (zero occupazione aggiuntiva, investimenti in calo)

  3. Michele

    Chi ha esperienza di direzione d’impresa ha chiarissimo un concetto: non assumo nessuno in più solo perché costa il 30% in meno per 3 anni. Assumo solo se mi serve una persona in più per fare fronte alle esigenze organizzative e di produzione. Un tale incentivo non ha “peso e appeal” a favore dell’incremento degli organici. Ma non migliora neanche la competitività: l’incidenza sui costi totali di prodotto è modestissima e comunque non è un risparmio strutturale, che mi posso spendere in termini di prezzi di vendita. Aumentano solo i profitti delle imprese. Grazie del regalo.

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