Il 18 dicembre scorso, il giornale radio della Bbc ha riportato due notizie in successione: benché separate e di secondo piano, insegnano entrambe qualcosa sul ruolo delle tradizioni nella vita sociale del Regno Unito. Ed entrambe segnano un ultimo giorno di lavoro: la prima per le miniere di carbone, la seconda per il direttore del British Museum.
Chiude l’ultima miniera di carbone
È difficile sopravvalutare il significato culturale che l’industria dell’estrazione del carbone ha per la Gran Bretagna. Dopo essere stato il motore della rivoluzione industriale, costituendo così una delle basi dell’impero, le sue vicissitudini hanno costituito uno dei filoni della narrativa storica e sociale del XX secolo. Tra le due guerre gli occupati in queste miniere superavano il milione; nei molti villaggi minerari, sparsi per tutto il paese, l’intera vita era incentrata sul carbone, i ragazzi facevano il mestiere del padre e del nonno e scendevano in miniera a 16 anni, per uscirne dopo quaranta con i polmoni distrutti. Quando la tragedia colpiva, sconvolgeva la nazione. Il villaggio di Aberfan ha una valenza emotiva, nella storia recente, simile a quella che il disastro del Vajont ha per l’Italia. Nell’ottobre 1966, un incidente in una miniera di carbone determina una frana che causa 144 morti, quasi tutti allievi della scuola elementare del villaggio.
Nel 1974, lo sciopero a oltranza dei minatori piegò le ginocchia al governo tory di Edward Heath: per razionare la scarsa energia e ridurre i disagi causati da lunghi e frequenti blackout, il governo impose misure estreme, quali la settimana lavorativa di tre giorni, la chiusura temporanea di servizi non essenziali, tra cui la fine delle trasmissioni televisive alle 22.30, senza però evitare una doppia sconfitta elettorale nei nove mesi successivi. I laburisti di Harold Wilson e James Callaghan cercarono di mantenere la pace sociale con i minatori, offrendo loro sostanziali aumenti salariali. Invano. Margaret Thatcher impara la lezione, affronta le elezioni del 1979 con una piattaforma anti-minatori; arrivata al governo, rifiuta di cedere alle domande del sindacato capeggiato da Arthur Scargill e combatte una delle più aspre battaglie sociali della storia britannica. Non scorderò mai il mio arrivo a Oxford, ottobre 1984: picchetti sindacali e polizia schierata in tenuta da guerra davanti al supermercato in centro. Molti film, da Billy Elliot e Pride fino a Full Monty, rappresentano bene l’umanità dei protagonisti e la dura intensità delle passioni di quegli anni. Poi la disfatta dei minatori, lo sciopero finito senza concessioni, l’inizio del lento declino. Una dopo l’altra le miniere chiudono, senza fanfare, con poche proteste, localizzate e di rado convinte, come se un secolo di tradizione e vent’anni di duro conflitto sociale fossero stati cancellati con un colpo di spugna dalla memoria collettiva. Chiuso il capitolo, si volta pagina, si guarda in avanti, senza tentare di salvare il non-salvabile, senza casse integrazioni a oltranza, senza interventi statali straordinari. La morte annunciata avviene il 18 dicembre 2015, archiviata con le foto dei minatori che escono, facce nere e maniche corte, per l’ultima volta dall’ultima miniera. Ora in profondità si va solo in visita guidata in un museo minerario.
Il British Museum guarda al futuro
E di un museo è la notizia successiva del giornale radio, l’ultimo giorno di lavoro del direttore uscente, Neil MacGregor.
Il nome British Museum evoca Sherlock Holmes, le nebbie e lo smog del XX secolo, enormi stanze di esposizione, pensionati e scolaresche e gruppi di studenti stranieri, che passano annoiati dalle mummie egiziane, ai marmi del Partenone, alle ceramiche cinesi. La direzione di MacGregor, arrivato nel 2002 dopo quindici anni alla National Gallery, vede trasformare quest’istituzione in una di avanguardia: sia per la scelta delle mostre temporanee, dai guerrieri di terracotta del 2007, all’arte erotica giapponese nel 2014, sia per serie televisive e radiofoniche di enorme successo, come le affascinanti Storia del mondo in 100 oggetti, e le Memorie della Germania, ancora disponibili come lunghe serie di podcast, ciascuno di 15-20 minuti (ideale compagnia quando si va a correre), sia per l’aumento del pubblico, da 4,6 a 6,7 milioni di visite all’anno, sia infine per l’atrio ultramoderno, in contrasto e armonia con lo stile neogreco della facciata esterna. Un’istituzione che sa che per evitare il declino è necessario non sedersi sugli allori, ma continuare a cambiare in modo radicale, capace di guardare in avanti, convinta che per mantenere in vita le sue radici così ancorate alla storia passata sia indispensabile guardare a quella futura: simbolico che l’ultimo atto di MacGregor sia stato l’acquisizione di una delle croci creata dallo scultore di Lampedusa Francesco Tuccio con il legno di una barca carica di rifugiati eritrei e somali, naufragata nell’isola. E il successore di MacGregor? È un tedesco: e non ci sono state nel Regno Unito le critiche e le polemiche causate in Italia dalla scelta di direttori stranieri per molti dei principali musei.
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giuseppe morganti
Una modesta osservazione. La considerazione che il nuovo direttore del British sia un tedesco e che non ci siano “state nel Regno Unito le critiche e le polemiche causate in Italia dalla scelta di direttori stranieri per molti dei principali musei”, riconduce tutta la questione allo sterile argomento della nazionalità (o dei nazionalismi). Quando basta comparare il curriculum di Hartwig Fisher a quelli della maggior parte dei nuovi direttori in Italia per avere un primo elemento dei motivi reali della polemica. Grazie comunque per il bell’articolo. Peccato sia stato guastato da una così superficiale conclusione.
peps
Anche la parte sulla Thatcher é molto superficiale. La chiusura delle miniera era un atto politico, almeno quanto economico. Bisognava spaccare le reni al sindacato, con conseguenze di lungo termine sotto gli occhi di tutti. Non ha generato nessuna efficienza, anzi ha creato generazioni di poveri, che in UK significa permanente. E regioni di povertá assoluta. Ha distrutto comunitá intere. Oltre a scassare un intero sistema produttivo. Oh, ma se ve piace cosí…
Andy mc Tredo
Non mi pronuncio sulla II parte dell’articolo (ma apprezzo entrabe le istituzioni museali londinesi). Per quanto riguarda la chiusura delle miniere vorrei farnotare:
1) dopo ormai 20/30 anni le zone ex minerarie sono rinate ed ecologicamente rigenerate (volete mettere con lo smog e gli inquinamentei e le disastrose condizioni sanitarie di prima?
2) non c’è stata una gran diminuzione di consumo di carbone: quindi a livello globale si è solo esportato inquinamento/lavoro pessimo sottopagato!
3) Provate a chiedere ad un nonno inglese se preferisce un nipote minatore o un nipote tecnico di pc/smartphone..