Mercoledi 15 aprile, In quasi 200 città degli Stati Uniti migliaia di lavoratori “a basso salario”, o  low-wage workers, hanno scioperato, durante una giornata di protesta nazionale nell’ambito della campagna #fightfor15. “Fifteen” sta per i 15 dollari all’ora che i lavoratori chiedono come salario minimo, un aumento stellare rispetto all’attuale salario minimo federale di 7,25 dollari, in realtà superato, in genere di poco, in quasi tutti gli stati.
I bassi salari sono uno dei temi al centro del dibattito pubblico statunitenense: ad esempio, la decisione di Walmart, di alzare i salari fino a 9 dollari l’ora ha suscitato abbastanza scalpore qualche settimana fa. È anche una questione anche molto calda politicamente, non solo perché quasi certamente influenzerà il prossimo dibattito elettorale – nel frattempo Hillary Clinton ha già espresso il suo supporto ai lavoratori in piazza –   ma anche perché i bassi salari pesano sulle casse pubbliche. Si calcola che il welfare statunitense spenda circa 153 miliardi di dollari l’anno  per sostenere i low-wage workers: le paghe sono talmente basse che, pur lavorando a tempo pieno, con orari di lavoro lunghissimi e alle dipendenze di giganti del mercato, molti lavoratori sono costretti a ricorrere a una qualche forma di assistenza pubblica per arrivare alla fine del mese.
La campagna #fightfor15 è di frequente associata ai lavoratori dei fast-food, non solo perché moltissimi low-wage jobs sono concentrati proprio in quel settore ma anche per l’adesione massiccia alla campagna dopo la decisione di McDonald’s di alzare il salario minimo orario solo ai propri dipendenti, escludendo quindi le decine di migliaia di persone che lavorano nei negozi in franchising: parliamo di 12500 store contro i 1500 gestiti direttamente da McDonald’s.
La posta in gioco è alta, non si tratta esclusivamente di lavoratori dei fast-food né solo di un semplice problema di salari.
Il movimento ha raccolto l’adesione di tantissimi operatori sanitari, assistenti familiari e domestici, lavoratori edili e, cosa ancora più interessante, di moltissimi docenti universitari precari in tutto il paese: anche una grossa percentuale di loro infatti è costretta a ricorrere a programmi di welfare a causa delle scarse condizioni lavorative.
La questione, come detto, va oltre i salari: i lavoratori protestano anche per ottenere dei turni di lavoro più regolari, oltre che un aumento della paga. Molti di loro sono impiegati sotto forme contrattuali che permettono al datore di lavoro di variare l’orario di lavoro, allungandolo, diminuendolo o addirittura azzerandolo di settimana in settimana, o persino giorno per giorno: non solo le ore lavorate sono pagate poco, ma non c’è alcuna certezza su quante ne saranno effettivamente concesse. La questione non riguarda solo i lavoratori statunitensi ma sta prendendo piede in sempre più paesi sviluppati, anche europei. Nel Regno Unito, in particolare, dove questi contratti vengono chiamati zero-hours proprio perché il datore di lavoro non si impegna a offire alcuno stock minimo di ore lavorative, col risultato che il lavoro può essere azzerato da un mese, settimana o giorno all’altro. Il Labour Party, in vista delle prossime elezioni ha posto il problema al centro della propria campagna elettorale.
Non è ancora certo dove porterà #fightfor15.  I lavoratori a stelle e strisce non sembrano intenzionati a mollare facilmente e, secondo Eric Morath del Wall Street Journal, l’obiettivo non è affatto fuori portata. Sarebbe uno degli aumenti più sostanziosi da moltissimo tempo a questa parte ma, soprattutto, si tratterebbe di una delle campagne di mobilitazione sindacale più di successo degli ultimi decenni a livello globale. Di certo, non è qualcosa da sottovalutare.
 
Valerio De Stefano – Ricercatore presso l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) a Ginevra

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