Il governo pensa a una riforma per le banche di credito cooperativo, che potrebbe però snaturarne l’identità. Buoni risultati si potrebbero invece ottenere con fusioni a livello provinciale. Scomparirebbero le Bcc con un rapporto tra crediti deteriorati e crediti totali oltre la soglia di allerta.
Lo stato di salute del credito cooperativo
Dopo l’approvazione del cosiddetto decreto “salva banche” è decisamente aumentata l’attenzione per lo stato di salute delle nostre banche. Un gruppo di rilievo nel panorama nazionale, molto radicato sul territorio, è quello delle banche di credito cooperativo (Bcc): sono 368 e sono presenti in tutte le regioni italiane.
Il rapporto dell’area studi di Mediobanca del 2015 ne censisce 337, distribuite su ottantuno province: rappresentano l’8 per cento del totale dell’attivo, il 15 per cento degli sportelli e l’11 per cento dei dipendenti.
Il rapporto tra i crediti deteriorati e il totale dei crediti verso la clientela costituisce un primo indicatore della solidità di un istituto bancario. Vi è una “regola del pollice” per cui quando il rapporto supera il 20 per cento scatta il limite di guardia e quindi la probabilità di incorrere nelle nuove procedure di bail-in è ritenuta elevata.
Il governo ha in cantiere una riforma delle Bcc, che potrebbe vedere la luce a metà febbraio. Le ragioni dell’intervento sono da ricercare sicuramente nel fatto che circa l’11 per cento (37 banche di credito cooperativo su 337) presenta un livello di crediti dubbi superiore alla soglia limite del 20 per cento, ovvero oltre un quinto del portafoglio crediti è a rischio di non rientro. Il 41 per cento di queste Bcc si trova al Nord, il 27 per cento al Centro e il 32 per cento al Sud. Il progetto di riforma dovrebbe vedere convergere le banche di credito cooperativo sotto una società capogruppo-ombrello; non è tuttavia ancora chiaro quale peso avranno nelle decisioni le singole banche.
Accentrare le decisioni strategiche – e forse anche la governance – delle banche di credito cooperativo potrebbe però snaturarle. Il testo unico bancario e i criteri fissati dalla Banca d’Italia indicano infatti che i soci delle Bcc “devono risiedere, ovvero operare con carattere di continuità nel territorio di competenza della banca stessa”, che la zona di competenza territoriale della banca deve comprendere i comuni nei quali ha la sede legale, le succursali e i comuni limitrofi, in modo che ci sia tra questi contiguità territoriale e la maggior parte (cioè non meno del 95 per cento) delle attività di rischio (prestiti) deve essere effettuata nella zona di competenza territoriale.
Bcc provinciali
Esiste però anche un modo alternativo di riordinare il sistema delle Bcc, che permette di mantenere il legame col territorio e fa perno sugli ambiti provinciali.
Se si ipotizza la fusione di tutte le banche di credito cooperativo di una provincia in un’unica Bcc e si sommano i crediti deteriorati e il totale dei crediti di ciascuna, si ottengono risultati interessanti: una banca su due ne trae benefici. Infatti, se si confronta il rapporto tra crediti deteriorati sul totale delle Bcc attuali con quello che deriverebbe dalla fusione, emerge che 167 banche su 337 migliorerebbero la propria esposizione creditizia. Al Nord vale per 90 Bcc su 187 – ovvero per il 48 per cento; ma al Centro e al Sud sarebbero il 51 per cento, rispettivamente 39 su 76 e 38 su 74 (tabella 1).
Tabella 1 – Numero di Bcc, distinto per zona geografica, il cui rapporto crediti deteriorati sul totale dei crediti diminuisce
Il miglioramento delle posizioni creditizie di metà delle attuali Bcc è reso possibile dall’altra metà delle banche di credito cooperativo, le quali, grazie alla loro maggior solidità, assorbirebbero nella fusione parte delle sofferenze. Se la nuova banca provinciale è composta da “buoni” e “cattivi”, l’operazione di fusione avrebbe un effetto positivo sul sistema del credito cooperativo? Ovvero, le nuove Bcc provinciali sarebbero meno esposte al rischio di bail-in?
Il risultato della simulazione mostra un miglioramento dello stato di solidità finanziaria del sistema cooperativo del credito. Infatti, a seguito della fusione, solamente quattro delle nuove Bcc provinciali (meno del 5 per cento del totale) risulterebbero avere un rapporto tra crediti deteriorati e crediti verso la clientela superiore alla soglia del 20 per cento. Si tratta delle nuove Bcc della provincia di Prato (il cui rapporto tra crediti deteriorati e totale dei crediti è pari al 21,67 per cento), della provincia di Caltanissetta (20,12 per cento), della provincia di Trapani (22,57 per cento) e della provincia di Vibo Valentia (23,45 per cento).
Per le banche provinciali che continuano a sforare il limite del 20 per cento, si potrebbe prevedere una loro ulteriore fusione con banche di province limitrofe. Ad esempio se si forma un’unica banca di credito cooperativo Prato-Firenze, Trapani-Palermo, Caltanissetta-Agrigento e Vibo Valentia-Reggio Calabria, tutte registrerebbero un rapporto tra crediti deteriorati e crediti verso la clientela inferiore al 20 per cento.
Affinché un simile riordino delle Bcc possa essere realizzabile, è necessario pensare a una forma realistica di compensazione a favore dei contributori di solidità patrimoniale: per esempio attraverso una differenziazione delle rappresentanze delle Bcc originarie nei consigli delle nuove banche, tenendo conto sia di una misura dei trasferimenti impliciti di capitale per valutare la durezza dell’aggiustamento imposta alle banche più solide, sia dell’ammontare di accantonamenti che le singole Bcc hanno destinato alla copertura dei crediti deteriorati prima della fusione.
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Franco Tegoni
L’ipotesi esposta va completata analizzando anche i problemi derivanti da una necessaria riorganizzazione che sicuramente coinvolgerebbe i livelli occupazionali riferiti a bancari che non hanno grandi alternative rispetto al rimanere nel sistema Bcc.
Giorgio Trenti
Chi vi autorizza a decidere su fusioni o accorpamenti? Le BCC sono cooperative. Solo i soci possono e debbono decidere. Se a loro va bene così, nessun saccente ha diritto d insegnare a loro cosa debbono fare.
Carlo Ippolito
Gli autori denotano di non avere nessuna conoscenza del mondo del Credito Cooperativo presentando dati incompleti, laddove non errati, e formulando una proposta che non ha alcuna possibilità di essere realizzata. Come verrebbero le gestite le numerosissime BCC che hanno una sfera di attività che si trovano a cavallo tra due o più province o che va oltre la dimensione provinciale? Di parole al vento al bar se ne sentono molte. Stupisce leggerle su lavoce.
Fabio Camilletti
francamente mi sembra un articolo superficiale ed eccessivamente teorico. Parla di fusioni e potenziali aggregazioni a livello provinciale senza una vera analisi della realtà delle BCC Italiane. Prendiamo ad esempio le realtà multiprovinciali già esistenti (ad esempio la BCC di Roma che opera nel Lazio, in Abruzzo e in Veneto), come si inserirebbero nella tesi esposta? Non vengono, inoltre, esaminate le funzioni di mutualità già gestite dal Sistema delle BCC, che ha finora evitato il default di singole BCC attraverso la mutualità di sistema e operazioni di fusione autogestite. in questo senso non sono rilevanti le 37 BCC a rischio se non si tiene presente le dimensioni di queste 37 rispetto all’intero sistema, cosa che purtroppo lo studio non fa.
Francamente mi sembra più rispondente alle esigenze di stabilità del sistema la proposta di autoriforma avanzata dalle BCC stesse, con la creazione di una holding spa detenuta per almeno il 51% dalle stesse BCC.
Andy Mc Tredo
… Ma le province non sono/andrebbero abolite? e come facciamo se ragioniamo sempre in base a confini percostituiti senza guardare alla fisicità del territorio, degli abitanti, delle vie di comunicazione, delle realtà artigianali/agricole ecc ecc… ?
angelo cipolloni
Il contributo di Ferraresi, Nordi e Rizzo costituisce un ulteriore e stimolante spunto di riflessione rispetto a situazioni ancora sfumate che andranno a esplicitarsi in modo più preciso man mano che lo scenario normativo e di mercato giungerà ad una prima definizione.
Nel caso di specie sarebbe stato interessante affiancare all’indice di sofferenza gli indicatori tipici di solidità della banca, quali ad esempio il Total Capital Ratio o il Cet1 (Common Equity Tier 1) che sono ampiamente utilizzati anche nel processo di revisione e valutazione prudenziale (supervisory review and evaluation process, SREP) del Meccanismo di vigilanza unico (MVU),
In tal caso il CET 1 ratio ed il TCR medi delle BCC sono pari, rispettivamente, al 16,2 ed al 16,7 per cento in raffronto al 12,1 ed al 14,8 del resto dell’industria bancaria italiana.
Il problema come si può intuire è complesso e richiede un’investigazione più ampia e profonda di tutti i profili di attenzione. Pare che ciò comunque autorizzi a concludere che la riforma non è ispirata o meglio non è interamente frutto delle sofferenze, ma è influenzata da elementi diversi, non necessariamente e strettamente di natura tecnica.
Francesco Aiello
Articolo legato al’allarmismo del momento, ma credo che la soglia di ipotetiche aggregazioni non possa e non debba essere guidata dal controllo degli indici di rischiosità del credito erogato, bensì, per esempio, debba essere suggerita dai potenziali guadagni di efficienza di scala e di scopo. Peraltro, il mero tasso di sofferenza non indica molto, in presenza di elevati indici di capitalizzazione. Infine, il processo di riforma non ha nulla a che fare con le sofferenze.
Michele Gambera
Rimane comunque il problema della governance. Quando c’erano mille casse rurali, almeno le persone nel paese conoscevano i dirigenti e un minimo di controllo c’era, anche se le beghe di paese a volte influenzavano il voto (o dal lato opposto il fatto che chi partecipa all’assemblea riceve un chilo di grana vota a favore dell’esistente leadership perche’ si sente riconoscente). Se si aggrega a livello provinciale con migliaia di soci, chi viene eletto per primo rimarra’ al vertice della banca cooperativa per tutta la vita perche’ il frazionamento del capitale e un voto per persona rendono impossibile il turnover dei vertici.