Riforme ambiziose per evitare la recessione: è il progetto della Cina alle prese con il rallentamento della sua economia. Ma il XIII Piano quinquennale non sembra andare oltre gli slogan. Pur nella consapevolezza che le grandi imprese di Stato devono essere tra i protagonisti del nuovo corso.

Lo scenario cinese

La Cina si sta imbarcando in una serie di riforme economiche ambiziose per sostenere la sua crescita. In forte decelerazione dalla fine del 2014, l’economia cinese deve trovare una nuova ricetta per evitare un brusco rallentamento e in prospettiva una vera e propria recessione. Ma quali sono le riforme e quali le ragioni che le impongono? E che cosa prevede il XIII Piano quinquennale che è stato approvato dal Plenum nei giorni scorsi? Poiché la rapida crescita cinese finora è stata sostenuta dagli investimenti delle imprese, e molto meno dal consumo delle famiglie, un primo gruppo di riforme ha l’obiettivo di ridurre gli squilibri macroeconomici dal lato della domanda, vale a dire il peso eccessivo degli investimenti, che oggi rappresentano il 45 per cento del Pil (in aumento dal 25 per cento del 1990). Un tasso troppo elevato di investimento è dannoso perché porta inevitabilmente a realizzare progetti di investimento inefficienti e non profittevoli, come dimostra il boom del settore immobiliare, che ha prodotto in giro per la Cina intere città e quartieri di nuova costruzione, ma disabitati. Inoltre, troppi investimenti generano sovraccapacità produttiva, che a sua volta spinge al ribasso i prezzi di vendita e accorcia i margini di profitto fino a farli diventare nulli, per non dire negativi (con conseguenze nefaste sui bilanci delle imprese).

Figura 1

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Fonte: World Development Indicators, Banca Mondiale

Il consumo delle famiglie, che dovrebbe essere il principale motore della domanda (pari a circa il 60 per cento in media nei paesi avanzati), in Cina rappresenta invece solo poco più del 35 per cento del Pil. Non solo, ma la tendenza dal Duemila va in direzione di un calo del consumo sul Pil, non di un aumento come dovrebbe essere se il paese si stesse davvero muovendo verso un nuovo modello.
La ragione principale della debolezza del consumo è che le famiglie cinesi hanno tanti motivi per risparmiare gran parte del proprio reddito: risparmiamo per far fronte alle spese sanitarie (in un paese che ha ospedali e ambulatori pubblici, ma dove la sanità è gestita in gran parte dai singoli), agli anni del pensionamento (in assenza di un sistema previdenziale nazionale) e all’istruzione dei figli (che in Cina non è finanziata del tutto dallo Stato, come forse si potrebbe ingenuamente pensare, ma impone grandi spese alle famiglie).
Ci sono poi altre ragioni, per esempio la distribuzione diseguale degli aumenti di reddito tra la popolazione, che ha visto incrementi maggiori per i percentili più alti dei residenti urbani, che hanno già una minor propensione al consumo, mentre la popolazione relativamente più povera, che spende gran parte dell’aumentato reddito, ne ha beneficiato meno. Infine, ma non di minore importanza, lo squilibrio tra i sessi, che in Cina è esageratamente pronunciato per effetto perverso dell’infausta politica del figlio unico (ormai allentata, ma dai danni permanenti). L’eccesso di uomini rispetto alle donne nelle coorti in età da matrimonio costringe i primi (ovvero i loro genitori) ad accumulare doti imponenti per aumentare la probabilità di trovar moglie. La conseguenza di tutto ciò è che in aggregato il risparmio è pari oggi al 50 per cento del Pil, ben 15 punti percentuali in più del consumo.
Per invertire la tendenza, bisogna scardinare i motivi che tengono alto il risparmio e questo richiede politiche strutturali tra cui l’introduzione di sistemi di previdenza e assistenza a copertura universale e un sistema fiscale che incentivi il consumo riducendo le imposte sui redditi più bassi. Tutto ciò richiede tempo per essere realizzato e tempo per avere effetti visibili. Il tempo però scarseggia da quando, dalla fine del 2014, il venir meno di una componente importante della spesa per investimento – quella nel settore immobiliare – ha reso le riforme urgenti e improrogabili.

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Il XIII Piano quinquennale

Alla luce di questo scenario, il XIII Piano quinquennale appena approvato lascia alquanto perplessi, perché vi è confermata la necessità di attuare politiche di offerta o supply-side reforms (gongjice), termine diventato ormai il nuovo mantra – oltre che il ritornello di una canzone rap che ha meritato addirittura l’approvazione ufficiale del governo. Abituati da tempo alla propensione cinese a produrre slogan, spesso senza grandi contenuti, è utile chiedersi come queste riforme potrebbero traghettare l’economia verso un nuovo modello di crescita. Secondo la National Development and Reform Commission (la principale agenzia cinese di sviluppo), la Cina deve diventare più innovativa ed efficiente nel produrre il tipo di beni che i consumatori cinesi vogliono acquistare. Ma gli interventi suggeriti, come gli sgravi fiscali sull’acquisto di auto elettriche, sono più stimoli della domanda che non interventi dal lato dell’offerta. Da parte sua, il governo si è limitato a reiterare proposte di riduzioni dei costi del credito per le imprese, incentivi all’investimento nei settori sottodimensionati come la sanità e al riassorbimento della sovraccapacità nel settore immobiliare (anche se non si capisce come). Purtroppo, la Xinomics è lontana anni luce dalla Reaganomics degli anni Ottanta (che oggi ispira, per lo meno a parole, le supply-side reforms di Xi) sia nelle diagnosi, sia nelle prescrizioni. Per il momento non va molto oltre la consapevolezza che le grandi imprese di Stato e i settori e le province da esse dominati (l’industria pesante nel Nordest, oggi già sull’orlo della recessione) devono essere gioco-forza tra i protagonisti del nuovo corso delle riforme, altrimenti trascineranno tutto il paese in recessione. Per uscirne il governo deve dimostrare di essere tanto bravo a produrre slogan quanto a riempirli di un po’ di contenuti.

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