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La Cina è vicina. Anche quando rallenta

Il rallentamento della Cina mette a rischio sia l’armonia all’interno del paese asiatico sia il benessere del resto del mondo. Condividere le responsabilità globali è la maniera migliore per traghettare la seconda economia mondiale verso un sentiero di crescita più modesto, ma anche meno fragile.

Riforme dopo la crescita impetuosa

Per anni abbiamo detto che la Cina, il suo impetuoso sviluppo, le sue fabbriche immense, i suoi lavoratori senza diritti, avrebbe portato l’Italia alla rovina. E ora che l’Impero di mezzo rallenta la sua corsa, nascono i timori per la nostra ripresa di porcellana. C’eravamo sbagliati prima? È successo qualcosa di nuovo? O magari la verità sta nel mezzo, in un’economia globale sempre più interconnessa, in cui il battito d’ala di Shanghai fa starnutire anche a Voghera?
Le origini del male che attanaglia attualmente l’economia cinese – un rallentamento della crescita al 6-7 per cento annuo invece del 10 per cento cui tutti ci eravamo abituati, non certo una stagnazione o addirittura una recessione prolungata come da noi – sono ben note. Quando un paese raggiunge un certo livello di ricchezza, per crescere non bastano più salari bassi e investimenti in macchinari e infrastrutture per inondare i mercati d’esportazione. Servono più innovazione, più consumi, più servizi, salari più alti che sostengano la domanda interna. E ovviamente serve anche un sistema finanziario più libero, capace di intermediare i risparmi e fissare il costo del denaro e in cui la valuta possa anch’essa aggiustarsi secondo le leggi della domanda e dell’offerta.
Tutto facile sulla carta, molto meno nella pratica. Le riforme sono difficili da realizzare ovunque, perché le perdite sono spesso concentrate su pochi settori e gruppi di cittadini, mentre i benefici sono diffusi, ma incerti. Succede anche in un paese autoritario, in cui la popolazione ha rinunciato a chiedere maggiore democrazia in cambio di una promessa di redditi in costante crescita. E in cui il governo e il partito sanno di dovere la loro legittimità e la pace sociale a questi risultati, senza i quali le jacquerie non sono mai da escludere. Per mantenere la stabilità politica, Pechino deve cercare di evitare grossi scossoni al sistema economico, e quindi non può permettersi di sbrigliare le redini con cui controlla il settore bancario, le grandi imprese di stato e la borsa, le cui turbolenze l’estate scorsa e all’inizio di quest’anno hanno bruciato i risparmi di molti piccoli investitori cinesi.

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Economie sempre più interdipendenti

Ed è proprio la crisi di Shanghai e Shenzhen a farci capire quanto stretta sia ormai la dipendenza della crescita mondiale dalle sorti dell’economia cinese. La Cina, infatti, non è soltanto un grande paese esportatore, di beni a prezzi contenuti, e quindi un temibile concorrente, ma anche un grande paese importatore. La Cina esporta anche perché può importare risorse energetiche e materie prime, di cui è carente, soprattutto da altri grandi paesi emergenti (come Brasile, Indonesia e Russia). Ma anche perché compra tecnologia e macchinari industriali dai paesi avanzati, come l’Italia, le cui imprese l’hanno scelta non solo e non tanto per approfittare dei vantaggi di costo – sempre meno importanti, dato il rapido aumento dei salari cinesi rispetto ai paesi limitrofi dell’Asia emergente – ma per presidiare il mercato più dinamico del mondo. L’integrazione della Cina in molte filiere produttive, dai macchinari all’information technology, dall’abbigliamento alle automobili, è la chiave di volta della globalizzazione, ma anche la fonte di nuove interdipendenze.
Se la Cina rallenta, come sta succedendo dalla seconda metà del 2014, diminuisce anche la domanda cinese di importazioni e di conseguenza l’export di mezzo mondo, che ha trainato la crescita negli ultimi anni.
I recenti dati tedeschi mostrano che la grande locomotiva europea, che pure corre veloce e vigorosa, sconta il calo dell’import cinese di macchinari e attrezzature, orgoglio del Mittelstand.
Per l’Italia lo shock è triplice: rallenta la domanda cinese di made in Italy, soffrono le filiere tedesche nei settori della meccanica strumentale cui siamo legati a doppio filo ed entrano in crisi i paesi esportatori di energia (compresa la Russia), che nel recente passato avevano sostenuto l’export tricolore in molti settori.
C’è un’altra complessità, destinata a perdurare. La rapida crescita cinese che tanto ha spaventato le piccole e medie imprese europee – a maggior ragione le italiane, mediamente più piccole, meno innovative, meno capitalizzate e meno capaci di internazionalizzare produzione e commercializzazione – in realtà ha trainato molti dei settori europei tecnologicamente più avanzati. Mentre la Cina invadeva i mercati mondiali con beni di consumo a basso prezzo, mettendo all’angolo molte nostre aziende, importava da altre i macchinari e gli attrezzi per poterli produrre – la meccanica strumentale, fiore all’occhiello spesso dimenticato della manifattura italiana.
Di fronte al rallentamento economico che mette a repentaglio sia l’armonia cinese sia il benessere del resto del mondo, si impone una soluzione condivisa. Farsi prendere dal panico e concedere a Pechino il lusso di svalutare lo yuan, e magari anche concederle senza contropartite lo status di economia di mercato dall’Europa (da Washington non lo ottiene), sarebbe sbagliato. Meglio rassicurare i governanti cinesi – magari nel G20 che la Cina presiede quest’anno – che il processo di aggiustamento è per sua natura lento e incerto. Condividere le responsabilità globali tra Cina e Occidente è la maniera migliore per traghettare la seconda economia mondiale verso un sentiero di crescita certo più modesto, ma anche più bilanciato e meno fragile.

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  1. marcello

    La svalutazione è il mod in cui si cerca di recuperare competitività e quote di domand ainternazionale quando si ha il controllo del tasso di cambio del paese, l’alternativa molto più costosasso di cambio, è la deflazione interna, quella che la Germania ha imposto in un’area valutaria non ottimale, come l’eurozona. Nello scorso anno tutti i paesi emerganti hanno svalutato (Turchia oltre il 20%), e se la Cina ha ridotto del 5% l valore dello yuan rispetto al dollaro, il Brasile ha svalutato di oltre il 30%, la russia Russia più del 15%, l’India il 20% e il SudAfrica del 25%. Il FMI ha rivisto a ribasso les time di crescita per il 2016-2017. L’economia americana è in frenata, quella Giapponese arranca e l’Europa affonda, non è che è il momento che la UE guidi la riprese economica mondiale con massicci investimenti pubblici, anche in deficit, nei settori strategici e di rete? Qualcuno ricorda che il moltiplicatore fiscale della spesa è superiore a uno e gli effetti positivi che questo avrebbe su crescita, debito pubblico e tasse? Non è che questa storia del bilancio in pareggio sta devastando l’economia mondiale portando il mondo verso un’ingovernabile stagnazione? Listini impazziti, petrolio a meno di 30$, materie prime e derrate agricole ai minimi storici, chi dovrebbe rilanciare l’economia mondiale? Certo si può rifiutare alla Cina lo status di economia di mercato, perchè di fatto non lo è, ma la cosa non risolverebbe nessuno dei problemi di casa nostra .

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