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Se gli economisti fanno i conti con la Brexit

I costi della Brexit

Nell’ambito della conferenza annuale della Royal Economic Society, quest’anno a Brighton, si è tenuta una tavola rotonda sui fattori da considerare quando si valuta la Brexit e le eventuali conseguenze di un voto a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Europa.
Ai circa 400 presenti, quasi tutti economisti accademici di università europee, Soumaya Keynes, giornalista dell’Economist, ha chiesto subito due cose: come votereste il 23 giugno, data fissata dal governo per il referendum per decidere se il Regno Unito resterà parte dell’Ue?, E come pensate che voterà il paese? Nelle risposte, per alzata di mano, ci si avvicina molto all’unanimità: una decina di pro-Brexit e un paio di indecisi, mentre gli altri voterebbero tutti per restare. Solo sei-sette mani, tra cui la mia, si alzano quando Keynes chiede quanti pensano che la Brexit vincerà.
Il primo a parlare è Richard Baldwin, che descrive una reazione a catena dopo un voto pro-Brexit: un periodo di caos, in cui regna l’incertezza sul modo in cui il Regno Unito riuscirà a rinegoziare i termini di accesso al mercato comune, che potranno soltanto portare a una situazione peggiore di quella attuale, perché il paese dovrà contrattare da una posizione di debolezza. Baldwin spiega che il modello di scambio internazionale del XX secolo, in cui un paese produce un prodotto che poi cerca di vendere all’estero, non si applica più nel XXI: adesso è l’intera “fabbrica” a essere esportata.
John Van Reenen presenta alcuni numeri: il costo annuale della Brexit sarebbe tra l’1,3 e il 2,6 per cento del prodotto nazionale lordo, tra mille e duemila euro per famiglia, cui va sommato l’aggiustamento al nuovo equilibrio, stimato tra il 6 e il 9 per cento del Pnl. Proietta poi sullo schermo il tweet di un suo follower, che definisce le cifre “un ottimo prezzo per l’acquisto della libertà del paese”. Van Reenen si dichiara incapace di ribattere a questo commento: un economista coerente non attribuisce poco valore alle preferenze altrui semplicemente perché sono diverse dalle sue.
Nelle domande e risposte, John Moore, il presidente della Royal Economic Society, richiamerà questo punto, collegandolo alla sua ricerca sulla dimensione ottima dell’impresa, per respingere l’idea che una “ever closer union“, l’integrazione sempre più stretta, sia necessariamente un ideale da seguire a prescindere da un’attenta analisi dei costi e benefici di date dimensioni di una nazione.
Il libero movimento di persone – o detto in termini più emotivi, l’immigrazione – avrà sicuramente un peso nel dibattito sulla Brexit molto maggiore della sua importanza economica per i cittadini europei. Swati Dhingra dimostra, dati alla mano, che l’immigrazione attuale nel Regno Unito non ha effetti diretti negativi di alcun tipo, né sull’occupazione, né sui lavoratori meno specializzati, né sulla disponibilità di case popolari o di altri servizi pubblici. La Brexit avrebbe invece pesanti conseguenze su altri aspetti della vita culturalmente e socialmente cari agli inglesi, come l’industria automobilistica, che di recente ha iniziato a batte ogni anno il record del numero di auto prodotte e continua ad attrarre investimenti, a iniziare dall’Aston Martin. Dhingra stima che la Brexit ridurrebbe la produzione automobilistica del 12 per cento.

Una morte annunciata?

Enrico Spolaore si chiede perché si sia arrivati a questo punto, come coppie che si ritrovano a parlarsi tramite avvocati. La spiegazione che Spolaore offre è un’altra “reazione a catena”, quella voluta da Jean Monnet, che concepì l’idea dell’ever closer union lungo un ineluttabile percorso che parte da accordi “facili”, che producono ottimi risultati senza causare rancore e risentimenti, come l’accordo sul carbone e l’acciaio, per arrivare – passando per il libero movimento di merci e poi di persone e di capitali, la creazione di unioni monetarie e doganali e in prospettiva fiscali – fino alla meta ultima di uno stato federale. Ogni passo inevitabilmente comporta decisioni sempre meno accettabili, come dimostra bene la perdita di fiducia nell’Unione Europea illustrata nel grafico. In realtà, come nota Baldwin, c’è abbastanza flessibilità nel sistema per permettere la creazione di un’integrazione variabile: uno stato può scegliere di star fuori dall’euro o da Schengen o ottenere le concessioni offerte a David Cameron, senza per questo destabilizzare in modo fatale l’Ue.
La conferenza prosegue con un dibattito preciso e puntuale, con molte domande e commenti dal pubblico: si fa notare che se è vero che limitare l’immigrazione dalla Ue potrebbe impedire ai datori di lavoro di assumere i lavoratori europei migliori, allo stesso tempo la probabile riduzione dei vincoli all’assunzione di extracomunitari potrebbe rendere più facile impiegare, per esempio, americani, indiani, e australiani. Un momento divertente si genera quando nessuno vuole rispondere a una domanda sulle possibili conseguenze della Brexit sul tasso di cambio o quando qualcuno fa notare che la Brexit sarebbe un immenso “esperimento naturale” che permetterebbe di determinare la precisione di tutti i modelli, micro e macro, utilizzati dagli economisti per predirne le conseguenze.
L’ultimo intervento è di Paul Johnson, capo di un influente centro di ricerca, che riesce a causare un voto perfettamente unanime nell’auditorio: chiede di alzare la mano se si ritiene che la Brexit avrebbe pesanti costi economici nel breve e nel lungo periodo. Su questo, siamo proprio tutti d’accordo.

Grafico 1

de fraja

Percentuale di cittadini Ue che dichiarano di aver fiducia nell’Unione Europea 1997-2013. Fonte: Luigi Guiso, Paola Sapienza e Luigi Zingales: ‘Monnet’s Error?’, from Eurostat.

Questo articolo è disponibile anche su www.tvsvizzera.it

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  1. Massimo Matteoli

    Articolo ottimo, ma quello che non capisco è come nella società inglese (almeno nella parte più avveduta) a questi ragionamenti non segua una critica netta del comportamento avventurista ed irresponsabile di Cameron.
    Per meri calcoli politici di bassa lega (non certo per dare voce al popolo !) il primo ministro conservatore ha tirato fuori dal cappello il “coniglio mannaro” della brexit, ha aggravato la situazione con una trattativa ridicola con L’Unione, ed ora mentre assiste inerme alla spaccatura del suo partito può solo sperare che Corbyn riesca a convincere abbastanza elettori laburisti da vincere il referendum. L’ironia della storia si vendica in modo speso imprevedibile come questo. Oggi ill futuro dei rapporti tra Gran Bretagna ed Europa dipende dall’uomo politico che tutti i “benpensanti”, anche della sua area politica, bollarono al momento della sua elezione come estremista o, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo romantico inadatto alla carica di leader laburista. Spero proprio, comunque vada, che la carriera politica di Cameron finisca qui..

    • Gianni De Fraja

      Grazie innanzitutto per il giudizio sull’articolo. Cameron, prima delle elezioni del 2015, ha fatto una promessa elettorale tattica e spregiudicata, sperando ti togliere voti a Ukip, e ha incluso nel programma la garanzia di un referendum. Pensava, secondo me ed altri, di non ottenere la maggioranza assoluta, e di usare quindi il referendum come merce di scambio con i liberali (io rinuncio a una promessa elettorale, e anche tu rinunci alla tua). Avendo la maggioranza in Parlamento, non aveva più scuse per non tenere il referendum. La trattativa con la Ue è fuorviante, non ha fatto cambiare idea a nessuno. La critica c’è: università, capitani d’industria, giornalisti “seri”, intellettuali, artisti, sono tutti contro Brexit: il relativo silenzio contro Cameron è secondo me dovuto al non voler aiutare la Brexit: e se Brexit vincesse si dovrebbe senz’altro dimittere subito, per essere rimpiazzato da un buffone pericoloso e approssimativo (una versione comica di Donald Trump). Sono meno d’accordo con quello che pensi di Corbyn: al di là della sua posizione politica, è chiaramente disinteressato al referendum, al contrario di quasi tutti i suoi colleghi di partito.

  2. P. M. Santore

    L’indomani del referendum, qualsiasi sia il risultato, nulla accadrà: è un referendum vincolante per la futura politica del governo britannico, ma senza effetti giuridici diretti.
    Le ipotesi fatte sugli scenari futuri in caso di vittoria del sì sono basati su supposizioni relative al comportamento, da un lato della GB e dall’altro dell’UE, su quando si arrivasse al dunque mediante una escalation di atti unilaterali e relative contromisure.
    Ma siccome “arrivare alle mani” non conviene a nessuno, lo scenario più logico in caso di brexit è che GB e UE si mettano d’accordo su di un percorso simultaneo di uscita dall’UE e di entrata in un qualcos’altro come hanno Norvegia o Svizzera. E dunque che annuncino un lungo processo di negoziazioni per raggiungere ciò.
    Il risultato sarà che alla fine ci sarà, dopo le citate Norvegia e Svizzera, una terza nazione che rimarrà pur sempre in Europa e integrata nell’UE, ma che avrà uno status guiridico particolare rispetto ad’essa: la Gran Bretagna.

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