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Dati mensili sull’occupazione: maneggiare con cautela

I dati mensili sull’occupazione sono soggetti a continue revisioni. Solo variazioni congiunturali superiori a circa 30mila unità si mantengono stabili nel tempo. Al di sotto della soglia, occorre essere cauti nel trarre conclusioni su aumenti o diminuzioni degli occupati. I primi due mesi del 2016.

L’analisi dei dati

Il recente moltiplicarsi di dati e statistiche sul mercato del lavoro, grazie a una pluralità di fonti – Istat, ministero del Lavoro, Inps – è un fatto positivo. Non importa se per adesso non siamo perfettamente in grado di leggerle in modo sinottico e coerente, anzi i tentativi fatti per distinguere addirittura gli effetti delle diverse politiche pubbliche – la decontribuzione rispetto al Jobs act – sono da incoraggiare. Tuttavia, anche un temporaneo passo indietro ci pare utile, chiedendosi, per esempio, non già se cresca il lavoro a tempo indeterminato in relazione ad altri tipi di contratto, ma semplicemente se l’occupazione, mese dopo mese, aumenta oppure no.
Il riferimento è sempre ai dati destagionalizzati, cioè quelli confrontabili e su cui calcolare le variazioni rispetto al mese precedente. Sono proprio questi dati, tratti dall’indagine sulle forze di lavoro, che un po’ tutti proviamo a commentare ogni mese, soprattutto in uno scorcio congiunturale nel quale siamo alla (ormai disperata) ricerca di segnali non equivoci di ripresa economica.
La tabella 1 riporta in riga la data di pubblicazione delle informazioni mensili dell’indagine continua sulle forze di lavoro e in colonna la data dell’evento cui si riferisce (non sono riportate tutte le colonne per motivi di spazio). Il primo numero in alto a sinistra rappresenta la variazione congiunturale del numero di occupati di febbraio 2014 rispetto a gennaio 2014 che si desume dai dati diffusi dal comunicato del primo aprile 2014: era pari a -38.700 unità. Il numero subito sotto si riferisce allo stesso evento (variazione febbraio su gennaio), ma nella rappresentazione della pubblicazione del mese successivo. E così via scendendo lungo la prima colonna.
Appare evidente che la riduzione degli occupati di febbraio 2014 a luglio dello stesso anno era diventata una piccola crescita (1.200 unità), che però non abbiamo ri-commentato perché all’inizio di quell’estate discettavamo sulla crescita di 51.500 occupati relativa a maggio 2014 (cioè il primo comunicato relativo al mese di maggio).
Certo, se avessimo pazientato fino a giugno 2015 per commentare i dati di maggio 2014 avremmo potuto raccontare dell’inizio di un boom economico perché i 51.500 occupati in più di allora erano diventati ben 129.300. E avremmo dovuto essere molto cauti anche nel decantare i primi effetti positivi della decontribuzione, quando a marzo 2015 si enfatizzò la crescita di ben 10.800 occupati nel gennaio 2015 rispetto a dicembre 2014, visto che oggi – cioè nell’ultimo comunicato Istat di aprile 2016 – quella crescita si è trasformata in una perdita di 63.100 lavoratori.

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Tabella 1 – Variazioni congiunturali mensili del numero di occupati

Schermata 2016-04-12 alle 10.40.15

(*) l’intestazione di riga è la data del comunicato a cui si riferiscono i livelli degli occupati, in colonna ci sono i valori riferiti al singolo mese nelle diverse date di pubblicazione dell’informazione; (**) le serie pubblicate il 2 marzo 2015 riflettono la revisione effettuata sulla base della ricostruzione delle serie storiche relative alla popolazione.
Nostre elaborazioni su dati Istat, Indagine forze di lavoro.

La soglia dei 30mila

La conclusione, dunque, è che i dati mensili dell’Istat non sono affidabili? Tutt’altro. Vanno semplicemente letti con qualche riguardo e tenendo sempre presente che le revisioni sono frutto delle procedure econometriche di destagionalizzazione e non hanno a che vedere con l’errore campionario (che l’Istat correttamente pubblica per i dati grezzi).
La domanda centrale è: quanto è stabile la variazione congiunturale dell’occupazione fornita nel primo rilascio? Insomma, se in un mese, diciamo il prossimo, l’occupazione dovesse aumentare, possiamo sperare che sia una crescita vera?
La tabella 2 sintetizza con una semplice analisi di regressione la strategia che suggeriamo per ottenere una risposta. Studiamo, per ogni evento mensile, la relazione tra la variazione congiunturale degli occupati dell’ultimo comunicato e quella che emerge dal primo.

Tabella 2 – Stima degli effetti soglia

Schermata 2016-04-12 alle 10.42.32

**/* significatività 5 per cento e 10 per cento; numero di osservazioni=20; la variabile dipendente rappresenta l’ultima pubblicazione disponibile, mentre la variabile indipendente rappresenta la prima disponibile. Ogni modello è stimato considerando l’effetto soglia sulla variabile indipendente.
Nostre elaborazioni su dati Istat, Indagine forze di lavoro.

Se i segni sono concordi, il coefficiente della X nella tabella 2 dovrebbe essere positivo e significativo. Così non è. Sostanzialmente, il coefficiente ci dice che se la variazione congiunturale degli occupati sta dentro le 20mila unità, in più o in meno, non possiamo dire che ci sia una vera crescita o una vera riduzione. Il valore di X_d1 si riferisce, invece, a una soglia, cioè a una variabile che seleziona le variazioni congiunturali maggiori di 20mila in valore assoluto. In questo caso sembrerebbe esserci moderata evidenza che il segno della variazione si mantenga nei successivi comunicati. La seconda colonna è più chiara: se tagliamo le variazioni congiunturali a 30mila in valore assoluto, possiamo affermare che sopra la soglia mantengono il segno a prescindere da quanto tempo passi tra il primo e l’ultimo comunicato, mentre sotto tendono a cambiarlo. Anche altri due test (non parametrici) – non riportati – indicano che il taglio più affidabile è proprio a 30mila.
Per essere conservativi, modifichiamo una parte della nostra conclusione: una variazione congiunturale degli occupati inferiore a 30mila in valore assoluto non consente, allo stato attuale, di stabilire se l’occupazione mensile sia effettivamente cresciuta o diminuita.
In termini pratici ciò vuol dire, per esempio, che gli ultimi due dati, relativi a gennaio e febbraio, sono significativi (anche se, sfortunatamente, contrastanti): a gennaio c’è stata una crescita degli occupati, a febbraio una riduzione. Per il futuro, cautela, quando necessario.

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  1. Michele

    Non mi è chiaro qual è la definizione del dato “destagionalizzato”.
    Come è possibile che la differenza tra febbraio e gennaio cambi ogni volta? Quale criterio si usa? Quale è la formula utilizzata?

    • Giovanni

      Per dato destagionalizzato si intende la correzione da fluttuazioni di carattere stagionale (come i giorni festivi, i giorni non lavorativi, periodi particolari, appunto stagionali, di domanda di lavoro) del dato grezzo, al fine di valutare le tendenze di breve periodo. Il fatto che alcune variazioni congiunturali (intese come differenza del dato a tempo a t-1 dal dato al tempo t) cambino ad ogni comunicato dipende appunto dalla procedura di destagionalizzazione utilizzata. Istat utilizza i criteri definiti a livello internazionale e riadattati a livello interno, ma in via generale la destagionalizzazione avviene attraverso le procedure TramoSeats (http://www3.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20020313_00/).

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