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Rilancio della produttività? La carta del welfare aziendale

Un decreto prevede vantaggi fiscali sui premi di produttività dei lavoratori riconosciuti da contratti aziendali o territoriali. Benefici anche per le imprese se predispongono piani di welfare aziendale per questo scopo. Ma sindacati e piccole aziende sono pronti a una inedita stagione negoziale?

Premi di produttività detassati

L’aumento della produttività per ora lavorata in Italia resta nel 2015 il più basso di tutta l’area euro, secondo l’Ocse, nonostante il rallentamento del costo unitario del lavoro dal 2008. Recuperare produttività sembra l’obiettivo numero uno sia per il governo che per le parti sociali, tanto che ne parlano tutti: Confindustria, ministero del Lavoro, sindacati.
Ma come ne parlano? Sembra che la produttività sia una funzione salariale su cui incidere attraverso la contrattazione collettiva. La negoziazione sulla produttività diventa la ricetta per contenere l’incremento del costo del lavoro, ridurre il cuneo fiscale, spartire ricchezza e tornare a crescere.
In attesa di un’evoluzione delle dinamiche retributive del contratto collettivo nazionale (magari con funzione di garanzia salariale, come proposto da Federmeccanica), dalle parole si è passati a un primo fatto.
I ministri del Lavoro e dell’Economia hanno firmato il decreto 25 marzo 2016 con cui si definiscono i criteri per raggiungere gli obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione. A questi criteri si può legare la corresponsione di premi di risultato di ammontare variabile o di somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa. Il limite è di 2mila euro lordi all’anno, che possono arrivare a 2.500 per le aziende che coinvolgeranno i dipendenti nell’organizzazione del lavoro. Il tetto massimo di reddito del lavoratore per usufruire dell’incentivo è di 50mila euro lordi annui. Ai premi si applica una tassazione del 10 per cento che sostituisce Irpef, addizionali regionali e comunali.
È indispensabile, però, che i premi siano erogati in esecuzione di contratti collettivi di secondo livello, aziendali (stipulati da Rsu o Rsa) o territoriali, in entrambi i casi negoziati con il sindacato più rappresentativo a livello nazionale. Ed è un problema perché le aziende che utilizzano questi contratti sono meno del 30 per cento e per la maggior parte con più di cinquecento addetti. Ma è proprio all’interno di questi contratti che dovranno essere regolati i “criteri di misurazione e di verifica” previsti dal decreto e che possono consistere nell’aumento della produzione, in risparmi dei fattori produttivi, nel miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro (con esclusione dello straordinario) o dal ricorso al lavoro agile. L’elenco deve essere specificato nella dichiarazione di conformità del contratto “redatta dal datore secondo il modello dell’allegato I e depositata entro 30 giorni dalla sottoscrizione presso la Direzione territoriale del lavoro”. Nel modello sono elencate venti tipologie di indicatori di risultato (diciannove più una, lasciata alla determinazione delle parti). Fra questi il volume della produzione, il fatturato o il valore aggiunto (come da bilancio) divisi il numero dei dipendenti, il margine operativo lordo diviso il valore aggiunto, gli indici di soddisfazione del cliente, la riduzione degli scarti di lavorazione, il miglioramento dei tempi di consegna, la riduzione dell’assenteismo, il numero di brevetti depositati, la riduzione degli infortuni, la riduzione dei consumi energetici e altri ancora.
Le risorse finanziarie previste (in media 323 milioni all’anno fino al 2022,) reperite attraverso la riduzione del Fondo per l’occupazione, sono tuttavia molto scarse.

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Esempi di welfare aziendale

Fin qui, il vantaggio fiscale è solo per il lavoratore: sugli importi degli incentivi l’azienda è soggetta al costo del lavoro ordinario non essendo più prevista la decontribuzione. Le cose cambiano se il datore predispone, invece, un “piano di welfare aziendale”, ossia se offre una gamma di vantaggi per soddisfare i bisogni sociali del dipendente (sempre meno garantiti dal welfare pubblico) e il lavoratore sceglie di fruirne in sostituzione, in tutto o in parte, del premio in denaro.
Fra i “benefit” previsti le erogazioni relative a buoni pasto, servizi di trasporto collettivo, previdenza e assistenza sanitaria integrativa, ormai quasi scontati. Meno scontati i voucher per servizi di educazione e istruzione dei figli compresi servizi integrativi (lezioni private) e sostitutivi di mensa, l’accesso a ludoteche e centri vacanze, le borse di studio, i servizi di ricreazione (palestre, corsi di ballo), culturali (libri, teatro, cinema) e di assistenza sociale fra cui quelli per i familiari anziani o non autosufficienti.
Due le possibili forme di remunerazione: l’erogazione di beni in natura (i più tipici sono i tradizionali pacchi alimentari) che non devono superare il valore complessivo di 258,23 euro all’anno per lavoratore. L’erogazione di servizi, invece, non ha limiti di importo (salvo casi specifici come la previdenza o prestazioni sanitarie integrative). In ogni caso, le prestazioni possono essere oggetto di contrattazione sindacale o di regolamento aziendale o di “atti di liberalità”. Diversamente dal premio in denaro, non sono necessariamente legate al raggiungimento di obiettivi e non costituiscono reddito per il lavoratore (non sono soggette nemmeno all’imposta sostitutiva del 10 per cento), non determinano imposizione contributiva e fiscale per il datore di lavoro.
Basterà per rilanciare la produttività? Resta da capire se quel 70 per cento di piccole e medie imprese che, fino a oggi, ha tenuto contrattazione e sindacati fuori dalla porta è culturalmente pronta ad aprirsi, così come resta da capire se il sindacato è pronto a gestire una nuova stagione negoziale in azienda. O se, invece, si finirà per scegliere la strada più “facile” del welfare aziendale offerto, anche senza accordo, a tutti i lavoratori o a gruppi omogenei di essi.

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Se l’Europa si muove contro l’elusione

  1. Massimo Matteoli

    Ma veramente pensate che il ritorno alle “mutue aziendali”, perchè di questo si tratta, servirà a modernizzare il sistema industriale ed a rilanciare la produttività?
    Penso che servirà solo ad aumentare ancora di più la frammentazione della società italiana, indebolendo ulteriormente nuove fasce di popolazione che per il tipo di lavoro o le dimensioni dell’azienda non potranno beneficiare di queste agevolazioni.. Un ulteriore indebolimento del mercato interno e, quindi, un colossale autogol anche per gli imprenditori che non lavorano per l’export. Che, se ve ne fosse dimenticati, sono ancora la grande maggioranza.

  2. Mario Rossi

    Siamo alle solite….roboanti manovre per miliardi di euro che non risolvono nulla perchè sono mancette nelle mani di molti che non fanno cambiare nemmeno la percezione di un trend. Solo che la somma di tante piccole cifre si presenta come un grosso malloppo. Solo che alla fine i conti non tornano mai l’economia non riparte perchè chi pensa di avere avuto finalmente un vantaggio va a vedere e si ritrova con nulla in mano e allora viene da pensare:ma questi stanno solo organizzando truffe oppure vogliono davvero cambiare strada? e già bravi … sono solo truffe che consentono di spostare solo quello che serve per fare tanto fumo ma l’arrosto è già sparito da un pezzo. Vi dico che ci aspettano altri anni e anni di lenta recessione fino a che tutti i soldi che gli italiani hanno risparmiato non saranno finiti. Allora poco prima della bancarotta le cose cambieranno per davvero. Effetto Grecia ma un pò meno duro, anche loro si sono accorti che quell’esperimento non ha funzionato!!!

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