Perché la ripresa dell’economia italiana resta anemica? Si può accusare la piccola dimensione delle imprese, che ostacola gli investimenti e l’innovazione. Ma a determinare la competitività è il confronto tra produttività e costi. E questi ultimi per le grandi aziende sono di gran lunga più alti.
Alla ripresa manca la produttività, non il lavoro
La ripresa nell’economia italiana è anemica. Lo è rispetto all’Italia del passato: il +0,3 trimestrale dei cinque trimestri della ripresa 2015-16 è inferiore alla crescita media (+0,4) della ripresa 2009-11 e nettamente inferiore alle medie di quelle del 2005-07 e del 1999-2001 (rispettivamente, +0,6 e +0,8 per cento al trimestre).
Ma è anemica anche rispetto agli altri paesi europei nell’attuale congiuntura. Mentre l’Italia si ferma a +0,3, l’Eurozona (come la Germania) è vicina al +0,5 per cento, la Francia è allo 0,4 trimestrale, mentre la Spagna sfiora l’1 per cento.
La variabile che manca all’appello non è tanto il lavoro quanto la produttività. Il Pil 2015 è infatti salito dello 0,8 per cento rispetto al 2014, come gli occupati. Cioè la produttività del lavoro (il rapporto tra Pil e occupati) è rimasta al palo.
Tante micro imprese poco produttive che non investono …
Sul perché la produttività abbia smesso di crescere nell’economia italiana ci sono tante opinioni, e non da oggi.
Una che va per la maggiore è che “piccolo” non sia più bello come in passato. Una volta la crescita italiana era fatta da tante piccole imprese agglomerate in distretti che, grazie alla loro flessibilità, riuscivano a superare i problemi atavici della società italiana. Piccolo era bello. Oggi invece – si dice – le condizioni sono cambiate e l’eccessiva presenza di piccole imprese è (sarebbe) addirittura un freno – se non “il” freno – per le capacità di crescita dell’Italia.
Le sfide del mondo globale che richiede capacità di gestire processi complessi su più mercati con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sarebbero troppo pesanti per le gracili spalle delle piccole imprese. Che, in più, non assumendo laureati e servendosi di modalità gestionali artigianali spesso associate a pratiche aziendali inefficienti, non sanno innovare.
I numeri Istat descrivono se e quanto il piccolo sia (diventato) brutto. I dati riguardano il 2013.
Tabella 1
La tabella 1 mostra che la produttività del cosiddetto business sector – il totale economia meno il settore pubblico, le utility e il settore immobiliare – cresce al crescere della dimensione di impresa. Una micro impresa ha un valore aggiunto per occupato di poco superiore a 25mila euro. Pari al 61 per cento della produttività di un’azienda media e pari al 38 per cento della produttività media di una grande impresa. C’è poco da dire: le micro imprese sono poco produttive. E ciò vale anche per le piccole.
Una delle ragioni per cui le micro imprese sono poco produttive è perché investono di meno. Le micro spendono in beni materiali, macchinari e attrezzature circa 4mila euro per occupato, la metà di quanto investe un’impresa media e meno di un quarto di una grande azienda. Un’impresa che investe meno, accumula meno capitale e avrà una minor produttività del lavoro.
Tabella 2
La micro produttività delle micro imprese è un problema soprattutto perché le micro imprese sono tante (3,5 milioni, il 95 per cento del totale) e occupano tante persone (il 47,1 per cento degli occupati del business sector italiano).
Sulla base dei dati riportati nel Rapporto di previsione di Prometeia (marzo 2016), in Germania la quota di occupati nelle micro imprese è solo il 26 per cento del totale: venti punti meno che in Italia.
Tabella 3
In sostanza, dunque, le micro imprese italiane sono poco produttive, ma anche molto rilevanti in termini di occupazione. L’implicazione – un po’ brutale – è che se le micro imprese diminuissero di numero diventando più grandi la produttività aggregata ne beneficerebbe anche solo per un puro effetto di composizione.
Il bello delle piccole. E il brutto delle grandi
A determinare la competitività e la crescita aziendale non è però la produttività, quanto il confronto tra produttività e costi, prima di tutto quelli del personale (salari più oneri sociali). E dal confronto di produttività e costi (e dei margini di profittabilità impliciti) si capisce meglio come fa a sopravvivere il piccolo. Le micro imprese hanno un costo del personale inferiore a 10mila euro per occupato, molto più basso di quello delle imprese nelle altre classi dimensionali. Forse impiegano persone in nero; di sicuro pagano salari più bassi e non sono soggette agli stessi oneri sociali delle imprese più grandi. Fatto sta che il rapporto tra valore aggiunto e costo del personale è nettamente più alto per le micro (2,6) che per le altre imprese (tra 1,4 e 1,5).
Tabella 4
Nel complesso, i dati Istat offrono nuova evidenza sull’andamento relativo di piccole e grandi imprese e sul loro impatto su produttività e crescita. Rimane vero che il piccolo è brutto perché mediamente poco produttivo.
Ma i dati mostrano che rimanere piccolo può essere conveniente. Le piccole imprese che non riescono a innovare sopravvivono (e magari prosperano) probabilmente da terzisti, pagando salari bassi e sfuggendo tasse e regole. Mentre le grandi imprese hanno costi di produzione elevati che ne riducono i margini di profitto e che le inducono a creare lavoro fuori dall’Italia.
Buon lavoro, ministro Calenda.
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Leo Scoccimarro
Il costo del personale nelle Micro imprese mi sembra sottostimato. Può spiegare come ha determinato o dove ha rilevato questo dato?
francesco daveri
Anche a me sembrava basso e così l’ho controllato attentamente. Il numero è quello riportato. Il dato è relativo al 2013 e viene da Statistiche nazionali sulla struttura delle imprese (dati dal 2008) I.Stat. Posso spedirle il file Excel con le mie elaborazioni se mi scrive una mail.
bob
….piccolo può essere anche bello e produttivo se invece che la varecchina produciamo chimica fine e se stiamo in un Paese dove la politica “produce” progetti e piani industriali, lungimiranti. Senza un progetto dietro non si va da nessuna parte, le tabelle, con tutto il rispetto per il suo lavoro, diventano mero esercizio scolastico …furi la realtà e ben diversa……come al solito
jacopo piletti
” Le piccole imprese che non riescono a innovare sopravvivono (e magari prosperano) ”
questo spiega il deserto italiano in campo chimico/informatico/tecnologico rispetto ad altri paesi
Maurizio Cocucci
Proprio ‘deserto’ non direi, nel 2015 l’export italiano di prodotti chimici è stato di 27 mld mentre quello di prodotti farmaceutici e chimico medicinali di quasi 22 mld di euro. Non sono rispettivamente i 108 mld e 70 mld della Germania ma nemmeno un dato trascurabile. Anche a livello di interscambio bilaterale con la Germania noi esportiamo loro 4 mld di prodotti chimici e ne importiamo per 7,7 mld (dati del 2014), mentre per i prodotti farmaceutici (sempre nel 2014) abbiamo esportato in Germania più di quanto importato: 2,6 mld contro 2,3 mld.
Alessandro Braida
Quindi le piccole sopravvivono tirando la cinghia e le grandi prosperano tagliando la corda. Mi sa che non se ne esce solo grazie al buon lavoro del ministro Calenda. Caro professore buon e lungo lavoro anche agli economisti!
mario rossi
PS : non credo che sia da immaginare che è meglio che spintaneamente le piccole aziende si facciano assorbire da qualche carrozzone perchè nessuno dei grandi gruppi investirebbe direttamente in Italia visto il sistema legislativo incredibilmente contorto. Nessuno che ha un pò di cervello e possibilità finanziarie produrrebbe neanche una vite in un paese dove al momento non si sa neanche come pagare le tasse arrivati a 15 giorni dalle scadenze. In un paese dove vengono fatte leggi che si appoggiano sopra leggi esistenti che sono ancora regi decreti. La modifica della costituzione è una roba da cardiopalma illeggibile. Provate a leggere la legge di stabilità: è semplicemente illeggibile. Il tutto naturalmente è voluto perchè nelle pieghe della infinita confusione legislativa si nascondono interessi addirittura personali di amici e amici degli amici che ti fanno prendere magari 100 voti e più la politica va a cercare i voti più il fumo aumenta e la confusione regna. Altro che cambio di verso, se non si vede un organismo venuto da un’altra galassia che mette le mani su quello che ho scritto noi verso non lo cambieremo mai!!
luca dal monte
come sono considerate le imprese individuali, dove non sono presenti collaboratori ma è solo l’imprenditore che presta la propria opera? forse la differenza del costo del personale della classe micro 0-9 è causata da questo
Michele
I dati sulle Micro imprese sembrano tutti poco affidabili. Un costo del lavoro inferiore a 10k per addetto non sembra possibile, cosi come non sembra affidabile l’incremento del 60% del valore aggiunto per addetto passando dalle Micro alle Piccole imprese
francesco daveri
I dati vanno sempre capiti, non vengono giù dal cielo. Ho indicato nell’articolo i motivi dei valori irragionevolmente bassi relativi alle micro: salari bassi, lavoro nero o familiare (o impresa individuale), minori oneri sociali. In ogni caso il divario tra piccole e grandi c’è anche se si confrontano le aziende tra 10-19 e 250+. Come dire che tutte (ma proprio tutte) le conclusioni dell’articolo valgono pari pari, anche se si escludono le micro.
Michele
Non mi sembra (almeno da questi dati) che la convenienza a rimanere “piccoli” sia così evidente. Tralasciando le micro imprese, la differenza tra valore aggiunto per addetto e costo del lavoro per addetto (alias la remunerazione del capitale investito) cresce al crescere della classe dimensionale delle imprese. Tra le Grandi e le Piccole la differenza è del 70%. Piuttosto la necessità di capitali fa la differenza a favore delle piccole. Piccolo è brutto e neanche conviene, ma non siamo capaci/non abbiamo i capitali per fare altro.
francesco daveri
Le micro imprese esistono e sono il 95 per cento del totale imprese. Non sono dunque un accidente eccezionale, una cosa da mettere da parte.
Comunque, la tabella dice che, dai 10 addetti in su, il rapporto tra valore aggiunto e costo del lavoro varia tra 1,4 e 1,5. Al secondo decimale, è 1,52 per imprese con 250+ addetti e compreso tra 1,42 e 1,47 per le altre imprese. Non è un gran differenza in favore della grande dimensione. Il che conferma che anche le grandi aziende hanno i loro problemi a produrre in Italia.
Michele
Professore la ringrazio per l’attenzione. Però mi scusi, ma io come imprenditore guardo il valore assoluto, non il rapporto. Ogni addetto delle Grandi remunera il capitale (VA-costo per addetto) per € 22.7k, nelle Piccole il valore scende a € 13,1, una differenza del 73.9%. Se posso/riesco mi conviene crescere.
Jorge
Rispondo al commento di Michele sulla remunerazione del capitale: è vero che ogni addetto in una grande azienda genera in termini assoluti un valore aggiunto superiore (+70%) rispetto a un addetto in una piccola azienda, ma nella prima lo stock di capitale per addetto (vedi articolo) è più che doppio rispetto a quello in una piccola azienda. In pratica, la vera remunerazione rilevante del capitale (che è una % su quanto impiegato) sembra inferiore nella grande azienda.
Michele
Jorge, ha ragione quando sottolinea che per crescere occorre capitale da investire più che proporzionalmente, come anche io avevo indicato precedentemente. Tuttavia in questo caso interviene la leva finanziaria, con il costo del debito ben inferiore al costo (Opportunità) dell’equity. Quindi la minore necessità di capitale favorisce le Piccole imprese, ma non cambia l’evidente convenienza a crescere. Piuttosto occorre esserne capaci e avere a disposizione un mercato dei capitali efficiente e trasparente. Capacità imprenditoriali e capitali mi sembrano che scarseggiano in Italia e questi fattori – a mio giudizio – spiegano la struttura dimensionale delle imprese meglio di altri fattori.
Emilio Roncoroni
Costo lavoro micro imprese. Istat pubblica i dati dell’occupazione per gli addetti ed il costo del lavoro mi pare riguardi i dipendenti che sono una parte degli addetti. Nelle micro gli addetti sono tanti (l’imprenditore e familiari) nelle classi maggiori decresocno in misura significativa. Attenzione pertanto alla corenze tra i dati del numeratore con quelli del denominatore
Maurizio Cocucci
Se ho colto correttamente il suo pensiero, lei prof. Daveri descrive sia i pro che i contro delle imprese raggruppate per dimensioni, però nel complesso ritiene che se troppo piccole (quindi parliamo di micro imprese) questo in ogni caso va a discapito della produttività e della competitività. Questo è vero, o comunque è (anche) il mio pensiero. Quando l’impresa è troppo piccola affronta costi omogenei proporzionalmente maggiori e difficoltà varie tra cui l’accesso al credito. Sono sì più dinamiche ma per contro ad esempio hanno maggiori difficoltà a presentarsi sul panorama internazionale. Una media impresa collocata in un settore a medio basso valore aggiunto può sfruttare ad esempio il lavoro su turni per sfruttare meglio i macchinari, mentre una micro azienda non lo può fare. E anche a livello di investimenti in R&S la troppo piccola azienda è fortemente penalizzata. Indicativo il confronto con la realtà tedesca che ha menzionato, dove anche da loro la piccola e media impresa rappresenta da una parte la maggioranza del settore produttivo ma dall’altra la distribuzione è più orientata verso quelle con un numero maggiore di dipendenti. Differenza che avevo letto anche in una passata pubblicazione della KfW con dati del 2013, in cui il valore aggiunto relativo alle micro aziende con meno di 10 dipendenti è stato del 28% sul totale relativo alle PMI in Germania, mentre da noi era del 43%. Non diverso comunque da quello riportato per Francia 45% e Spagna 42%.
bob
..si dovrebbe analizzare e dividere mercato interno e mercato di esportazione. Inoltre micro impresa non è solo quella che fa bulloni ma anche una panineria è micro impresa. Inoltre i dati sulle esportazioni italiane sono sovra dimensionati e falsati dal credito d’IVA
Mario Rosii
Comunque tutto questo non è un problema! già da tempo sto pensando di andare a lavorare all’estero e ci sto andando per davvero. All’italia non servono le piccole imprese, non serve oramai più nulla. Da tempo mi chiedo tutti i giorni ma chi me lo fa fare. Solo che c’è un problema…..se le piccole imprese non servono più, non sono produttive e via dicendo perchè continuate a chiederci di fare da sub appaltatori delle cosiddette grandi imprese, perchè chi si deve sporcare le mani siamo sempre noi, perchè ancora ci venite a chiedere le tasse. Si avete ragione voi meglio chiudere e aspettare di essere assunti dalla grande impresa e nel frattempo, siccome i piccoli imprenditori che sono sopravvissuti sono quelli che hanno costriuto qualcosa, godersi la vita….che è meglio
Mario Rossi
una risposta a Michele …… se pensi di crescere devi tenere presenti 3 fattori: il primo che se non sai fare prodotti di nicchia che dovrai esportare per la maggior parte all’estero lascia perdere perchè di certo non sarai competitivo da nessun lato e aumentare i costi in un momento in cui calano i prezzi non mi sembra una idea da imprenditore. Il secondo che se non hai più di un appoggio politico dovrai farti carico di un sistema legislativo che ti obbligherà ad aumentare gli impiegati per stare dietro alla burocrazia in maniera proporzionale agi operai e questo non credo che poi ti farà essere tanto produttivo. Il terzo se non hai appoggi politici non sperare di essere finanziato in alcun modo anzi se prendi un finanziamento tu sarai il primo a dovere rientrare dei tuoi prestiti e non gli amichetti della banca che, etruria docet, non rientreranno mai e nessuno dice niente. Stai attento Michele se non hai nulla da perdere vai tranquillo ma se quello che hai lo hai sudato pensa bene, ti conviene prima mangiarti tutto e spassartela, poi buttati nel mondo dell’impresa
Nicolò boggian
Sarebbe interessante capire come cambia il dato prendendo in considerazione solo aziende di matrice culturale italiana vs multinazionali. Nelle prime spesso i processi organizzativi sono assenti o più formali che sostanziali questo provoca un clima interno peggiore e una percezione di scarsa Meritocrazia. Nelle Pmi italiane sembra invece che il clima interno sia tendenzialmente migliore. Nelle multinazionali invece le economie di scala di sommano a processi organizzativi solidi che ne aumentano la competitività. C’è quindi una forte tensione al risultato e al controllo dei costi. Sarebbe interessante capire come queste differenze organizzative tra aziende italiane e multinazionali si riflette sulla sua interessante analisi
marcello
Combinndo le considerazioni di questo articolo e di quello del professor Schivardi si ha la sensazione che il problema delle diffcioltà dell’economia italiana sia nella struttura dei costi. Cuneo fiscale e costo del lavoro, ma a me sembra invece che il problema sia la produttività. Se proprio non si vuole parlare di stagnazione secolare, va quanto meno detto che la produttività in Italia non cresce, anzi talvolta decresce, dalla fine degli anni 90, quando gà cresceva molto poco. Che in questo modo un paese manifatturiero non possa sopravvvere è evidente, tanto è vero che dal 2009 abbiamo perso oltre il 25% della capacità produttiva. Che un paese di 60 mn di abitanti possa sopravvivere con i servizi è una leggenda metropolitana: la crescita delle produttività nei servizi è metà di quella della manifattura. Il ministro Calenda dce che lo Stato non interverrà nell’economia, bene allora è bene prepararsi al riposizionamento dell’Italia nella catena del valore con tutte le conseguenze del caso. Peccato che in troppi abbiano dimenticato la lezione, questa si, di Ronald Reagan e la battaglia che condusse contro il Giappone per la leadership mondiale dell’industria dei microprocessori: allora si giocò il futuro degli USA come potenza industriale e come è andata a finire è storia.
Mario Rossi
Giusto! la produttività non cresce, ma certo che se la produttività è calcolata PIL/numero di lavoratori mi domando cosa producano i dipendenti pubblici. Bisognerà che la piccola impresa tira fuori anche le budella per compensare! dico bene?
Massimo Matteoli
Tradotto in soldoni i dipendenti delle piccole e micro imprese (che possono invocare solo il contratto nazionale) guadagnano poco, mentre più aumenta la dimensione delle aziende più aumenta il costo per addetto. Mi pare, perciò, evidente che l’Italia di tutto ha bisogno tranne di superare il CCNL a favore di un maggior ricorso alla contrattazione aziendale.