La Brexit avrà conseguenze sul settore finanziario. A cominciare dalla perdita del “passaporto europeo” per gli operatori inglesi. Ma soprattutto il Regno Unito non avrà più la capacità di plasmare le strutture portanti delle normative, dando più valore alle tradizioni giuridiche europee.
Operatori senza “passaporto europeo”
La cosiddetta Brexit schiude prospettive del tutto nuove, che ovviamente investono l’intero fascio di questioni e di rapporti che legano, sulla base dei Trattati, gli Stati dell’Unione Europea (e che verranno affrontate nel contesto di quella che sarà la prima applicazione dell’articolo 50 del Trattato Ue). Il comparto finanziario risulterà, comunque, tra quelli maggiormente toccati dall’uscita del Regno Unito dall’Unione, quantomeno sotto tre profili.
Il primo attiene, ovviamente, al cosiddetto “passaporto europeo”. Gli operatori che hanno sede nel Regno Unito perderanno l’accesso al mercato comunitario sulla base del meccanismo del mutuo riconoscimento, sancito dalle direttive Ue. Non è, peraltro, affatto scontato che il Regno Unito riesca a negoziare con la Ue status particolari o soluzioni su misura: la decisione sarà soprattutto politica. Ciò avrà enormi conseguenze trasversali: in primo luogo, per le banche, ma anche per le imprese di investimento, per le offerte di prodotti finanziari, per gli organismi di investimento collettivo, per le operazioni di private equity e molto altro.
La piazza londinese, sin dal Big bang dell’era di Margaret Thatcher (1986), ha costruito la propria egemonia sul sapiente dosaggio delle regole europee, con l’applicazione del passaporto unico. Brexit priverà delle regole della libera circolazione e del mutuo riconoscimento tutti i soggetti che utilizzano la “piattaforma” londinese quale base di lancio in Europa dei propri prodotti e servizi finanziari. Le attività transnazionali da Londra verso il continente (e viceversa) saranno possibili soltanto con i limiti, le condizioni e le modalità – piuttosto restrittive – che da sempre si applicano nei rapporti con altre importanti piazze finanziarie non europee, ad esempio, Svizzera, Stati Uniti o Giappone. Posto che l’industria finanziaria tende a ricercare le migliori condizioni di efficienza, è inevitabile che gli operatori valuteranno la possibilità di ridomiciliarsi in altre giurisdizioni europee. Il processo investirà anche le attività e le operazioni del mercato: ad esempio, le offerte pubbliche lanciate sul mercato londinese, magari da soggetti con sede in altri Stati.
L’egemonia del diritto inglese
Una seconda conseguenza riguarderà la struttura stessa delle operazioni. Oggi, gran parte delle operazioni che si svolgono sul mercato europeo dei capitali sono improntate a schemi basati sul diritto inglese: l’esempio più evidente è quello degli strumenti derivati, figli degli schemi standard, assolutamente egemoni sul mercato, elaborati dall’Isda – International Swaps and Derivatives Association. Con Brexit, la legge inglese sarà certamente utilizzabile quale norma regolatrice dei contratti, ma non sarà più necessariamente quella di riferimento. Per quanto asseritamente più “avanzato” o più “efficiente” il diritto inglese possa apparire in alcuni ambiti (ad esempio, derivati, garanzie finanziarie od operazioni di cartolarizzazione), ciò non sarà più sufficiente. La scelta della legge regolatrice dei contratti è, infatti, alla fine guidata da criteri che attengono anche, o soprattutto, alla localizzazione delle operazioni. Si pensi, ad esempio, al settore della gestione collettiva finanziaria: in Europa, la parte preponderante dell’industria dei fondi comuni aperti (regolati dalla direttiva Ucits – Undertakings for Collective Investment in Transferable Securities) ha sede in Lussemburgo, e – ovviamente – è il diritto lussemburghese che regola tali prodotti finanziari.
Infine, una terza conseguenza riguarda la stessa impostazione di fondo della disciplina europea, in specie nel settore della regolamentazione di titoli e obbligazioni (securities regulation). Negli ultimi decenni, il tumultuoso sviluppo della disciplina si è mosso sotto l’egemonia di schemi provenienti dall’esperienza inglese: la disciplina Mifid (e, prima ancora, quella sui servizi di investimento del 1993), quella sugli abusi di mercato, i prospetti informativi, i derivati, le garanzie finanziarie, il rating e – sebbene in misura minore – anche la gestione collettiva (direttive Ucits e Aifmd) sono soltanto alcuni degli esempi più evidenti. Molto spesso, i sistemi giuridici dell’Europa continentale hanno dovuto compiere enormi sforzi di adattamento per metabolizzare istituti alieni alla propria tradizione, ma entrati ormai a far parte del diritto europeo. Con Brexit, il Regno Unito non avrà più la capacità di plasmare le stesse linee di fondo, le strutture portanti della securities law europea. I modelli potranno evolversi secondo linee diverse (tutte, certo, ancora da esplorare), con ricadute di rilievo anche sulle prevalenti correnti dottrinali che, in Europa, si occupano di queste materie. Sebbene il percorso da seguire sia accidentato, non è però da escludere che ciò contribuisca all’elaborazione di una cultura della securities regulation nella quale le tradizioni giuridiche dell’Europa continentale risultino meglio valorizzabili e non soltanto costrette ad adattarsi agli schemi della terra di Albione.
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Paolo Inv
Professore articolo molto importante. C’è però un punto fondamentale a riguardo di incertezza.ha ben evidenziato come il diritto inglese sia più efficiente. È chiaro che nella secutization il security trunstee giochi un ruolo fondamentale ed è chiaro che nessun ordinamento di civil law riesca a garantire uno schema adeguato ove Security trunstree e SPV funzionino a dovere, pena quella di dover caricare il bilancio degli istituti di credito di alti rischi.
Ecco lei pensa a riguardo che si possano rinvenire degli strumenti analoghi nella nostra tradizione di civil law? Io penso di no. Il rischio è qualcosa che gli ordinamenti anglosassoni riescono a gestire tramite gli istituti ad essi peculiari. Sono molto curioso di poter leggere una Sua risposta.articolo veramente interessante e stimolante.
Graziano Crema
Eccellente analisi.
Come nota addizionale suggerirei anche particolare attenzione alla localizzazione delle camere di compensazione (CCPs) e le dinamiche, legali e non, ad essa associata.
Difficilmente un’Europa senza UK permetterà che la quasi totalità dei flussi dei derivati passino attraverso camere di compensazione localizzate in UK (i.e. LCH).
Sara interessante vedere se – come indicato nell’articolo – la preponderanza del diritto inglese su alcune tipologie contrattuali (esempio derivati) si ridurrà o che tipo di soluzione le autorità troveranno per diminuire la frammentazione dei mercati finanziari già in atto.