I dati 2015 per il Mezzogiorno sono incoraggianti. Si tratta di un segnale positivo, ma è difficile credere che sia una svolta. Poco è cambiato nella società meridionale e nelle politiche per lo sviluppo di quelle aree. Necessari interventi coraggiosi che arrestino la fuga delle risorse migliori.

Cresce il Pil a Sud

Le stime preliminari dell’Istat sul Pil e sull’occupazione ci dicono che, nel 2015, il Mezzogiorno, dopo sette anni consecutivi di segni negativi, è tornato a crescere.
Sorprendentemente la crescita del Pil nelle regioni del Sud (+1 per cento) è stata in linea con quella delle regioni del Nord (+1 per cento Nord-Ovest, +0,8 Nord-Est) e ben superiore a quella delle regioni del Centro (+0,2 per cento). Anche il numero degli occupati è aumentato più al Sud che al Nord: +1,5 per cento contro una media nazionale di +0,6 per cento.
Segnali positivi per il Mezzogiorno arrivano pure dal numero delle attività economiche – 3.425 imprese in più nel 2015 rispetto al 2014 – e dalle esportazioni – cresciute del 4 per cento. La crescita del Pil è trainata dal comparto agricolo (+7,3 per cento), dal settore del turismo e dei trasporti e delle telecomunicazioni.
Bastano questi numeri a far pensare che il Sud si è messo in moto e che siamo adesso sulla strada della ripresa? Certo sono segnali positivi, ma una rondine non fa primavera. Soprattutto quando il dato contro cui ci si scontra è così consolidato. Il differenziale di reddito tra Nord e Sud è strutturale: il processo di convergenza tra le regioni italiane si è arrestato nella seconda metà degli anni Ottanta e da allora il divario è aumentato, aggravandosi con la crisi. Nonostante il buon risultato del 2015, il Pil del Mezzogiorno è di soli 16.828 euro pro-capite contro i circa 29.900 euro delle regioni del Centro-Nord. La Calabria e la Campania sono tra le regioni più povere d’Europa.
Per cambiare in maniera significativa questi dati sono necessarie consistenti e persistenti variazioni positive. Oggi la variazione è piccola e proviene da settori specifici che da soli difficilmente potranno garantire un’inversione di tendenza. Mentre nelle regioni del Nord i migliori risultati in termini di crescita del Pil si registrano nell’industria (circa +2 per cento), al Sud la crescita è trainata da agricoltura (+7,3 per cento), turismo e trasporti e telecomunicazioni. Si rimarcano quindi vocazioni territoriali differenti.
Nel 2014, circa il 44 per cento delle imprese attive del Centro-Nord operava nei servizi (29 per cento) e nell’industria (16 per cento), mentre al Sud le imprese attive in questi settori erano il 31,6 per cento (19,2 per cento servizi e 12,4 per cento industria). Nelle regioni del Mezzogiorno una posizione di rilievo è invece occupata dal settore agricolo: circa il 20 per cento delle imprese attive, contro il 12 per cento del Centro-Nord. Ciò non deve essere per forza letto come segno di arretratezza. L’agricoltura può essere anche innovativa e, con investimenti adeguati, diventare un settore ad alto valore aggiunto. Stesso discorso vale per il turismo (la cui crescita deriva in questo momento anche dalla particolare situazione internazionale). Questi settori possono certamente contribuire alla sviluppo del Mezzogiorno, ma probabilmente non possono bastare. Di aree coltivabili al Sud non ce ne sono molte e la vocazione turistica di alcune zone è stata fortemente compromessa dagli scempi edilizi commessi in passato.

Leggi anche:  Basta un bonus per ripopolare la Basilicata?

Politiche a misura di giovani

È difficile quindi intravedere nel dati del Pil 2015 un cambiamento di rotta. È difficile perché non si capisce da cosa dovrebbe originare. Poco è cambiato. Il Sud continua a essere la terra in cui i mali del paese si accentuano. Il governo d’altra parte non se l’è sentita né di destinarvi nuove risorse (il Masterplan per il Sud si basa sulle risorse dei fondi strutturali e su quelle del fondo di coesione sociale) né di indicare una strada. Come evidenziato da Claudio Virno, si è preferito optare per una riedizione dei vecchi patti territoriali. Ogni regione presenta un patto che finisce con l’essere una lista di progetti scollegati, scelti non tanto per ragioni di merito quanto per l’influenza decisiva delle lobby. Si è preferito lasciare le mani libere a una classe dirigente che, come denunciato tempo fa da Roberto Saviano, viene selezionata non per capacità, per responsabilità, per creatività e per innovazione, ma esclusivamente per lealtà. Questa classe dirigente sceglie riproducendo le stesse logiche che stanno al base del processo di selezione di cui è frutto. Quindi, nei patti per il Sud si può sperare, ma è difficile crederci.
Bisognerebbe invece fare scelte coraggiose, puntare su una strada in maniera decisa, evitando frammentazioni. Il Sud ha bisogno di fermare l’emorragia che da tempo gli sta togliendo le sue energie migliori. Quelli che se ne vanno non sono un campione casuale, sono i giovani più istruiti, i giovani più propensi al rischio e più innovativi, quelli che più si sentono estranei al sistema, che a essere incondizionatamente leali non ci stanno. Di questi giovani il Sud non può fare a meno e le politiche che vogliono aiutare il Mezzogiorno devono essere studiate per loro, per seguire logiche nuove e togliere potere a chi ha mostrato di saperlo usare solo per perseguire interessi personali.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  E se la fine di Decontribuzione Sud fosse un'opportunità?*