Si sta cercando una soluzione per le banche in crisi senza applicare il bail in. Se ciò avviene con soldi pubblici, è un favore agli azionisti. Che invece dovrebbero essere i primi a pagare per il salvataggio. L’alternativa è un aumento di capitale emettendo diritti a forte sconto.
Come far pagare gli azionisti
Negli ultimi due anni l’Italia è andata a due velocità: mentre l’indice Ftse Italia Banche ha perso il 45 per cento, l’indice Ftse Italia Industria è salito del 13 per cento e l’indice Star, che include aziende di piccole dimensioni di valore, è salito del 34 per cento. È evidente che la soluzione dei problemi del sistema bancario italiano consentirebbe al settore industriale di concretizzare ulteriormente il proprio potenziale. Il dibattito corrente si sta focalizzando su come evitare di applicare il meccanismo di risoluzione implicato dalla normativa entrata in vigore dall’inizio dell’anno con iniezione di fondi pubblici. Questa soluzione finirebbe per premiare almeno parzialmente gli azionisti che viceversa – come suggerirebbe la teoria (e il buon senso) – dovrebbero pagare per primi i costi dello stato di insolvenza di una banca. Si potrebbe invece far pagare agli azionisti questo costo prima dell’entrata in azione della procedura di risoluzione di fronte al dissesto di una banca. Avviare un’azione di questo tipo richiede però che si affronti la questione di cosa succederebbe alla banca se gli azionisti si rifiutassero di essere coinvolti. C’è una soluzione: le banche dovrebbero procedere ad aumenti di capitale emettendo diritti a forte sconto sul prezzo attuale (ad esempio alla metà del prezzo corrente). Un azionista che non vuole esercitare il diritto può venderlo sul mercato. Si consideri il caso di una banca che ha cento azioni quotate al prezzo di 1 euro, con un valore totale di 100 euro. Dopo l’esercizio del diritto offerto a ogni azionista di acquistare un’azione a 0,5 per ogni azione posseduta, il capitale della banca crescerà di 50 euro. Se l’aumento di capitale lascia inalterato il valore della banca, il prezzo azionario scenderà 0,75 euro. L’azionista sarà quindi in possesso di due azioni per un valore totale di 1,5 euro. Prima dell’operazione aveva la stessa ricchezza con un’azione che valeva 1 euro e 0,50 in liquidità. In alternativa, l’azionista potrebbe vendere il diritto sul mercato al prezzo di 0,25 euro, compensando così la discesa del prezzo dell’azione da 1 a 0,75 euro. Qualora l’operazione venga intrapresa da banche in situazione di difficoltà finanziaria è possibile che gli azionisti si ritrovino un valore inferiore allo 1,50 euro iniziale del nostro esempio. In questo caso, gli obbligazionisti sarebbero i beneficiari dell’operazione di aumento di capitale, d’altra parte il miglioramento della capitalizzazione consentirebbe di tornare a creare valore. È già successo che le banche abbiano proceduto, con successo, a operazioni di aumenti di capitale “coercitivi” nel recente passato. Nel novembre 2008 il Banco Santander ha raccolto 7,2 miliardi di euro, un’operazione simile è stata intrapresa da Barclays nel luglio 2013. Operazioni di questo tipo non possono applicarsi alle banche insolventi: nel loro caso, la soluzione più immediata è quella, già discussa da Alberto Alesina, Francesco Giavazzi e Luigi Zingales, di un intervento dello Stato, che immetterebbe il capitale necessario con una perdita della maggior parte del patrimonio da parte degli azionisti.
Acquisizioni possibili
Un’alternativa sarebbe quella di organizzare l’acquisizione della banca insolvente da parte di una banca solvente, o da un consorzio di banche, con un ruolo potenziale per un intervento statale nel limitare le perdite generate dalla sofferenze. Gli azionisti perderebbero parte del loro patrimonio e le obbligazioni diventerebbe passività della banca acquirente. Per alleviare il costo dell’intervento pubblico è immaginabile richiedere agli obbligazionisti un “haircut”: l’alternativa di rimanere con la banca in default potrebbe ben essere peggiore. Si pensi al caso del Monte dei Paschi: i prestiti valevano 102 miliardi di euro alla fine del 2014. Secondo le stime più recenti, indicate nella lettera recapitata a fine giugno dalla Banca centrale europea, le sofferenze nette di Mps ammontano a 24,2 miliardi. Considerando un tasso di recupero di un terzo, si ottiene una perdita di circa 16 miliardi di euro, equivalente a tre volte il capitale della banca nel 2014. Ma 16 miliardi sono solo il 16 per cento del capitale delle due maggiori banche italiane e poco più dell’1 per cento delle loro attività totali a fine 2014. L’acquisizione di Mps da parte di altri istituti può produrre sinergie e risparmi di costi che potrebbero più che compensare le perdite comportate dall’acquisizione. Il consorzio acquirente potrebbe assorbire i costi dell’acquisizione con un intervento pubblico molto limitato. Potrebbero sorgere potenziali problemi di anti-trust, che andrebbero monitorati. Infine, allo scopo di evitare “corse agli sportelli”, si potrebbe pensare di aumentare l’assicurazione sui depositi in maniera significativa rispetto agli attuali 100mila euro. Il provvedimento andrebbe realizzato insieme a una misura che leghi il premio di assicurazione alla rischiosità dei prestiti. In questo modo non solo si disciplinerebbe l’azzardo morale per le banche, ma si ridurrebbe anche la propensione dei risparmiatori a spostare i depositi dalle banche più deboli a quelle più solide.
L’uscita dalla crisi dell’Italia passa attraverso la soluzione del problema bancario: gli interventi per riuscirci sono articolati, ma fattibili.
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Henri Schmit
Condivido l’analisi e la proposta di soluzione, l’unica percorribile, come era facile capire da tempo. Preciserei solo che le due prime banche non sono equivalenti; solo una si può vantare di una gestione adeguata, l’altra non ha saputo gestire la fusione anni or sono con la principale banca romana, profondamente marcia (governance impropria, crediti distribuiti come favori, affari paralleli di esponenti in conflitto con gli interessi della banca, coinvolgimento in frodi a danno dell’erario, etc). Non bastano due mesi di un nuovo AD per sanare problemi che si trascinano da anni. Non vedo invece problemi di antitrust, ci sono ovunque più banche di quante servono ai risparmiatori e alle imprese. Ci sono troppi sportelli e troppi dipendenti che rendono queste banche inefficienti, non in grado di svolgere adeguatamente le loro attività caratteristiche. Ci sarebbe quindi una sola banca in grado di incorporare MPS; i gruppi esteri ancora in piedi ormai evitano di investire nel bel paese. Una volta c’era chi difendeva l’italianità… non solo delle banche.