Le grandi squadre spagnole dovranno restituire milioni di aiuti di stato dichiarati inammissibili dalla Commissione europea. Anche in Italia la flessibilità garantita al calcio fa sì che gli investitori esteri arrivino. Pur senza aiuti di stato, più attenzione agli altri settori non farebbe male.

Aiuti di stato alla Liga

Finalmente abbiamo capito perché Barcellona e Real Madrid vincono tanto in Europa: aiuti di stato. Scherzi a parte, la notizia è che la Commissione europea ha imposto a diverse grandi squadre spagnole di restituire a varie amministrazioni pubbliche del paese i soldi indebitamente ricevuti negli anni passati.
Le situazioni sono diversificate. Alcuni club (tra cui Real, Barça e Athletic Bilbao) per circa venti anni sono stati trattati come non-profit e hanno quindi ricevuto benefici fiscali (pagando le imposte con il 5 per cento di aliquota in meno delle altre squadre spagnole). Il Valencia ha invece beneficiato di garanzie pubbliche che gli hanno consentito di accedere al credito a condizioni più favorevoli di quelle di mercato. E il Real Madrid si è anche visto sopravalutare di oltre 18 milioni una proprietà ceduta alla città di Madrid (in sostanza, la città gli avrebbe regalato 18,4 milioni). A parte quest’ultimo caso, non sappiamo di quanto denaro si tratti, ma la Commissione ha deciso che le somme dovranno essere restituite – nel caso del Valencia sarà la differenza tra quanto ha pagato per i suoi finanziamenti e quanto avrebbe dovuto pagare “normalmente”.
Rispetto ai bilanci di questi club forse non sono cifre enormi, ma “al margine” tutto conta. Si tratta di una storia interessante anche perché sfata l’idea che solo il nostro calcio è “drogato” e perciò inferiore agli altri, che invece vivrebbero nel libero mercato e che da lì trarrebbero le loro soddisfazioni. In realtà temo che in tanti paesi pratiche di questo tipo siano abbastanza comuni.

In Italia è meglio o peggio?

L’episodio riporta a una riflessione più generale, su come e perché le amministrazioni pubbliche tendano a essere così morbide con le squadre di calcio quando altrettanto non avviene con le imprese “normali”. È morbida la Spagna, ove solo cinque-sei anni fa le due principali squadre di calcio avevano ciascuna circa 600 milioni di scoperto con il fisco (rimasto superiore a 300 milioni un anno fa). Con importi anche minori, in Italia a un’impresa normale succedono cose molto spiacevoli.
E anche in Italia una decina di anni fa siamo passati attraverso decreti “salva-calcio” che hanno consentito alle squadre dilazioni dei pagamenti delle imposte che i normali contribuenti si possono sognare. Se non erro, la Lazio ricevette una dilazione di pagamento di ben ventitré anni: al settore metalmeccanico si applicano le stesse condizioni?
Il colossale regalo non fu etichettato come aiuto “inammissibile” (forse perché nessuno aveva portato la questione a Bruxelles), ma almeno in apparenza i presupposti c’erano.
Per non parlare del modo in cui alcune squadre sono state salvate dal fallimento con norme ad hoc. Tra le blasonate e fallite solo la Fiorentina nel 2001 e il “mio” povero Parma l’anno scorso hanno avuto la ventura di ripartire dai dilettanti. Quando nel 2004 il problema si presentò per il Napoli, intervenne il “lodo Petrucci” che partiva dal presupposto che il fallimento delle squadre di certe città avrebbe ingenerato tali problemi “sociali” da dover essere scongiurato.

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Eppure un risultato lo otteniamo…

Ora la Commissione comincia a guardare nel mondo del calcio e a scoprire qualche magagna. Ma ce ne sarebbero tante, e non solo in Spagna. La morbidezza dello Stato è uno scandalo? Forse.
È evidente come gli aiuti di stato pongano problemi non solo di equità ma di efficienza, sia rispetto alla concorrenza tra imprese (squadre), sia rispetto ad altri settori. L’intervento della Commissione è in primo luogo legato a questo aspetto. Anche se molti paesi in varia misura fanno cose simili, ciò non rende legittimi gli aiuti.
Aiuti che sono illeciti anche perché – ed è il secondo tema – c’è la questione della parità di trattamento tra chi investe denaro nel calcio e chi lo investe altrove. Perché regole diverse per settori diversi?
Difficile da giustificare, la disparità di trattamento ha però conseguenze interessanti. Forse non è un caso che proprio nel calcio italiano (e non in altri settori) si siano visti di recente tanti investimenti esteri, dagli Stati Uniti (a Roma) all’Indonesia e alla Cina (a Milano). Capisco le acquisizioni di imprese che vanno bene, ma in questo settore si vendono anche quelle con i conti meno impeccabili. Abbiamo brand forti sotto il profilo dell’immagine, ma deboli sotto quello delle finanze. Si sa che il calcio è un settore rischioso, dove però prima di far fallire una società, la pubblica amministrazione le prova veramente tutte. E se la Pa non è ostile, allora gli investitori stranieri arrivano.
Ci si può chiedere se la pubblica amministrazione abbia ragione a essere severa negli altri settori o se sia giusto essere invece flessibili come accade verso il calcio. Da “rigorista” propendo per la prima tesi e mi spaventerebbe un atteggiamento blando generalizzato. Però, se poi nel resto dell’economia gli investimenti esteri languono (nel 2015 secondo Ernst Young l’Italia pare essere al 18° posto in Europa come capacità di attirarne), una riflessione bisognerà pur farla.

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