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Effetto Brexit sul Regno Unito

La Brexit è un evento completamente inatteso innescato da un politico incompetente solo per fini interni al partito conservatore. I già elevati costi sociali ed economici che ne derivano potrebbero essere aggravati dalla risposta di nuovi governanti ancora più incapaci e attenti al proprio interesse.

La reazione dell’economia

Come molti altri cittadini del Regno Unito, sono ancora incredulo che un’incauta promessa elettorale fatta da David Cameron nel 2013 con l’unico scopo di mantenere l’unità del partito conservatore, tanto più con l’aspettativa di non vincere le elezioni e quindi di non doverla mantenere, stia portando ai cambiamenti epocali per la nostra società che si stanno verificando dal referendum sulla Brexit.
Intanto, si confermano le previsioni degli esperti sui costi. Il dollaro si è apprezzato di più del 15 per cento sulla sterlina, portandosi ai massimi livelli dai primi anni Ottanta. Significherà prezzi più elevati per riscaldamento e altri beni di consumo: in un paese con un enorme indebitamento privato, ciò porterà a default sui mutui immobiliari, aggravati anche dalla perdita del valore degli immobili (già il 10 per cento a Londra, con aspettative di mercato intorno al 25 per cento). Anche la confidenza delle piccole e medie imprese è in caduta libera, e la maggior parte degli indicatori economici suggeriscono una perdita di crescita del PIL, e forse l’arrivo di una recessione.
Per evitare un collasso, la Banca d’Inghilterra sta immettendo 250 miliardi di sterline nel sistema e l’obbiettivo di rientro del deficit (ora al 5,2 per cento sul Pil) è stato accantonato, nonostante il rapporto debito/Pil sia di circa il 90 per cento. È probabile che queste politiche protraggano nel tempo la perdita di Pil di breve periodo dovuta alla Brexit, stimata dall’Oecd nel 3,3 per cento del Pil. Nel frattempo, la Brexit farà perdere capitale umano ai settori professionali e dei servizi: medici e accademici cercheranno di trasferirsi negli Stati Uniti o in Europa e l’impatto negativo sul settore finanziario potrebbe portare al trasferimento di intere banche a Dublino o a Parigi. 

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La reazione del partito conservatore

La risposta politica sembra essere ancora una volta solo quella di mantenere l’unità del partito conservatore, profondamente diviso dalla campagna referendaria. Il premier Theresa May è stato scelto solo per la sua “neutralità di fatto” rispetto alla Brexit. Anche se ufficialmente a favore di “Remain”, da ministro dell’Interno, May ha adottato politiche spiccatamente anti-immigrazione: ottuse, come la riduzione del numero di visti per studenti non-UE che pagano decine di migliaia di sterline ciascuno per studiare nel Regno Unito, o francamente crudeli, come aver vietato l’ingresso a duemila bambini siriani orfani di guerra. Tre fautori dell’uscita del Regno Unito dalla Ue sono stati piazzati in ministeri importanti per la Brexit: Liam Fox (Commercio estero), Boris Johnson (Esteri) e David Davis (ministro per la Brexit). Il dilettantismo del trio è esemplificato dalla subito ridicolizzata affermazione di Davis nella sua unica intervista da ministro, secondo la quale “l’Associazione economica europea è dieci volte più grande della Ue”.

Possibili scenari futuri

Guardiamo ai fatti: 1) il Pil pro capite del Regno Unito è inferiore a quello di tutti i paesi del Nord Europa; 2) gli immigrati portano un surplus fiscale di 25 miliardi di sterline all’anno e il loro apporto di capitale umano è ancora più significativo; 3) i cittadini britannici residenti nella Ue creano un significativo deficit fiscale, in quanto per lo più anziani e pensionati; 4) il business model dell’economia dei servizi britannica (si pensi alle istituzioni finanziarie) si basa sulla libera circolazione di capitali e servizi con la Ue; 5) la produzione manifatturiera, spesso di proprietà straniera, è principalmente volta all’esportazione nel mercato Ue; 6) la Scozia non intende accettare la decisione “inglese” di lasciare la Ue e intende perseguire la secessione dal Regno Unito; 8) il Pil pro-capite dell’Eire è quasi il doppio di quello dell’Irlanda del Nord e Brexit determina una forte spinta alla riunificazione irlandese.
Quindi, l’accordo migliore per il Regno Unito sarebbe una relazione con la Ue il più simile possibile alla situazione attuale: un accordo come quello della Norvegia, con libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali e il pagamento di un contributo al budget Ue vicino a quello attuale. Le sole differenze rispetto alla situazione pre-referendaria sarebbero la possibilità di firmare accordi commerciali con paesi terzi e il non poter prendere parte alle decisioni Ue.
Ma dopo la sua campagna referendaria profondamente xenofoba e razzista, difficilmente Davis accetterà un accordo di stile norvegese, che non darebbe al Regno Unito il controllo all’immigrazione dalla Ue. Pertanto, tutto è possibile. Dal referendum, il Regno Unito è di fatto irrilevante nei processi decisionali della Ue, con le dimissioni dell’unico commissario britannico con portafoglio e la rinuncia al semestre di presidenza. Il ricorso all’articolo 50 e l’inizio delle negoziazioni sui termini dell’uscita dalla Ue sono rimandati al 2017. Se venissero ritardati ancora, si manterrebbe di fatto l’attuale limbo di stile norvegese.
Un altro scenario possibile è che non ci sia alcun accordo sui termini dell’uscita dalla Ue nel tempo limite di due anni dall’invocazione dell’articolo 50 e che questo porti alla secessione della Scozia, alla riunificazione irlandese e all’applicazione delle regole del Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) nei rapporti con la Ue. I costi sociali ed economici per i cittadini del Regno non-più Unito potrebbero salire ancora parecchio.

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Il Punto

  1. Analisi economica interessante, analisi politica deludente. Se un criterio dell’incompetenza politica fosse la bocciatura dall’elettorato dovremmo chiamare tali uomini di incontestata competenza, dotati di coraggio per promuovere politiche impopolari quali Schroeder e Monti. Prevedendo un sicuro successo Cameron ha utilizzato l’arma del referendum per obiettivi condivisibili 1. di costringere i partner UE a fare concessioni (forse sensate), 2. marginalizzare il movimento anti-UE guidato da UKIP e 3. convertire l’euroscetticismo più razionale di numerosi Tories. Sfortunatamente i proponenti si sono bruciati le mani perché non c’era una maggioranza sufficiente per far vincere il remain, cioè la ragione. Hanno vinto le passioni, purtroppo reali, a volte giustificate, raramente buon consiglio per le decisioni da prendere. Se quest’analisi è corretta, la causa del voto per il leave è la paura (e non le menzogne o le volgarità del dibattito pubblico), e la causa della paura è la dubbia capacità dei principali leader UE e nazionali 1. di controllare i flussi migratori e 2. di costringere i paesi inadempienti o in difficoltà come l’Italia ad autodisciplinarsi. La bestia nera degli europeisti, Farage, presente alla convention repubblicana, invitato durante una cena ad esprimersi sul dopo Brexit, ha risposto: “L’Italia lasci l’Europa altrimenti la distruggerà”. Benché eccessiva la provocazione dovrebbe far spingere tutti a riflettere e a valutare i propri rischi del dopo Brexit.

  2. Emanuele

    Ottimo articolo, l’autore si è solo perso per strada il punto 7 del paragrafo “scenari futuri” 🙂

  3. dave marler

    Bello, ma l’articolo ignora l’altra faccia della medaglia: l’evolversi dell’UE. 1) La possibilità di ‘breakup’ diventerà medio-alta per l’UE come per l’UK in quanto non sono due eventi distinti ma correlati geo-politicamente e politicamente 2) Da anni, nell’UE, politiche fiscale e monetarie vanno in direzioni opposti, aumentando, senza un correttivo, il rischio di una fortissima crisi nell’eurozone. 3) Ricordiamoci qui che l’UE ha già perso il suo unico ‘global financial center’ e non sarà facile crearne un altro a breve, se non in senso provinciale e/o frammentario 4) La Commissione e il Parlamento europeo sono usciti mali della Brexit, comportandosi come complici, quasi in combutta, dimostrando poco rispetto per un voto democratico e legittimo, anche secondo i trattati 5) Al momento, l’UE non possiede alcun meccanismo, né istituzionale né costituzionale, in grado di conciliare le divergenze fra i diversi poteri ‘nazionali’ e ‘federali’; cioè, il vero casus bellum fra lo stato italiano che vuole proteggere i suoi risparmiatori e l’UE che vuole imporre le regole ‘condivise’ 6) ‘Crisi è quel momento in cui il vecchio non muore ed il nuovo stenta a nascere’: la UE è in crisi tanto quanto i suoi stati nazionali. Sarebbe meglio ricordarselo prima delle elezioni in Francia. Eppur se muove o si muore… in Europa come nell’UK.

    • Henri Schmit

      Ottimo intervento. Panoramica intelligente delle criticità europee emerse col Brexit.

    • Marcello

      Guarda che è l’Europa che sta difendendo i risparmiatori italiani.
      Il governo gli sta appioppando i debiti di MPS per salvare il controllo della Fondazione

      • Francesco

        … di che controllo parli ? La Fondazione ha meno del 2% di MPS .

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