Le politiche monetarie non convenzionali hanno permesso di stabilizzare le principali variabili finanziarie e gestire le crisi del debito sovrano. Ma dopo otto anni, crescono le preoccupazioni del mondo bancario e assicurativo. E c’è chi vuole usare la politica fiscale per stimolare la domanda.
Otto anni di politiche monetarie non convenzionali
Come evoca il nome, le politiche monetarie non convenzionali avrebbero dovuto avere carattere eccezionale e rimanere in vigore per un breve lasso tempo. È naturale quindi che, a otto anni dal loro massiccio utilizzo nei principali paesi sviluppati, molti analisti si chiedano quali benefici abbiano prodotto e soprattutto se il loro prolungato impiego non generi eccessivi costi. È opinione condivisa che tali politiche, in particolare l’acquisto di titoli pubblici e privati da parte delle banche centrali (conosciuto come Quantitative easing), l’annuncio delle linee guida della politica monetaria (forward guidance) e l’utilizzo di tassi negativi, abbiano avuto effetti positivi nello stabilizzare le principali variabili finanziarie. Questi strumenti hanno, infatti, prodotto una diffusa riduzione dei tassi d’interesse sia a breve che a lungo termine, un importate sostegno ai mercati azionari e una sensibile svalutazione dei tassi di cambio. Tutto ciò ha evitato che le crisi finanziarie degenerassero, come era avvenuto nel ’29, quando le politiche monetarie erano state ben più restrittive. In Europa, poi, le politiche monetarie non convenzionali hanno giocato un ruolo importate nella gestione delle crisi del debito sovrano. Molto più complesso è valutare il loro effetto sull’inflazione e soprattutto sulla crescita economica, che rimangono ancora molto deboli ovunque. In questo caso, le relazioni tra le variabili appaiono instabili e soggette a numerosi break strutturali. Tuttavia, anche in questo ambito, le politiche monetarie non convenzionali sembrano aver fornito un importante contributo all’uscita dalla recessione. Un recente lavoro di Tomasz Wieladek della Bank of England e Antonio Garcia Pascual del Fondo monetario ha però mostrato come in Europa gli effetti del Qe siano stati molto inferiori a quelli osservati negli Stati Uniti e nel Regno Unito, sia in termini di crescita del Pil che d’inflazione. In particolare, l’Italia è la nazione che meno ha beneficiato delle politiche monetarie espansive a causa delle debolezze del suo sistema bancario e di un mercato dei beni che rimane poco competitivo (vedi grafico), anche se hanno consentito una notevole riduzione degli spread e una tenuta del credito (sul caso si vedano anche link e link).
Grafico 1
Le preoccupazioni del mondo bancario
Il protrarsi delle politiche ultra-espansive delle banche centrali ha, più recentemente, fatto insorgere crescenti preoccupazioni da parte di ampi settori del mondo bancario e assicurativo, ma anche della Banca dei regolamenti internazionali e, in maniera più circostanziata, del Fondo monetario internazionale. Particolare attenzione desta la politica dei tassi d’interesse negativi, che, per inciso, la Fed non ha mai voluto perseguire. Indubbiamente, politiche monetarie ultra-espansive esercitano, a lungo andare, una forte pressione sui margini di profitto delle banche, che non riescono facilmente a traslare sui depositanti tassi d’interesse negativi, mentre le plusvalenze realizzate sullo stock di titoli in portafoglio creano solo un temporaneo effetto benefico sui loro bilanci. Tutto ciò riduce la loro capacità di remunerare e quindi di accumulare capitale, vincolando nel lungo periodo la loro disponibilità a concedere prestiti. Ovviamente questi problemi sono particolarmente rilevanti in paesi banco-centrici come la Germania e l’Italia (si veda qui e qui). In presenza di tassi d’interesse negativi anche il comparto assicurativo e quello dei fondi pensione faticano a investire le loro riserve. Questo induce gli operatori a investire su attivi più rischiosi e i privati ad aumentare la quota del loro risparmio. Più in generale, politiche monetarie molto espansive provocano, nel lungo periodo, una forte redistribuzione dei redditi a favore dei ricchi, che vedono rivalutare i loro attivi, e dei soggetti più indebitati, che possono ridurre i loro oneri finanziari. Anche le svalutazioni sul mercato dei cambi generate da tali politiche sono un gioco a somma zero, che provocano “guerre valutarie”, giacché al deprezzamento di una moneta corrisponde l’apprezzamento di un’altra. Tutto ciò potrebbe indebolire la credibilità e l’indipendenza delle banche centrali, giacché le sorti dei debiti pubblici sono sempre più nelle loro mani. Ecco perché trova un crescente supporto la volontà di usare la politica fiscale al fine di stimolare la domanda: in Giappone, dove il governo Abe ha recentemente varato un importante pacchetto di stimoli fiscali e rinviato per la seconda volta l’aumento dell’Iva; in Inghilterra, dove il nuovo primo ministro May ha dichiarato di voler rivedere il budget pubblico pluriennale alla luce degli effetti recessivi del referendum; negli Stati Uniti, dove entrambi i candidati alla presidenza hanno annunciato importanti programmi di investimenti pubblici. Rimane il problema dell’Europa stretta tra l’ortodossia tedesca, l’assenza di un bilancio comunitario e il forte debito pubblico di molti paesi. Ecco perché molti risparmiatori, non solo tedeschi, si stanno chiedendo sino a quando dovranno continuare a investire i loro risparmi a tassi negativi aspettando che il ciclo economico migliori.
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Piero
Le politiche monetarie con strumenti non convenzionali devono essere attuate in modo preventivo e rapido, cosa che non è successa in Europa, sono state utilizzate tardi e non in modo rapido. In Europa c’era bisogno di fare crescere la base monetaria negli anni 2011 e seguenti, ciò non è avvenuto, perché le misure sono state sterilizzate fini al 2015. Finalmente siamo arrivati nel marzo 2015 al Qe con il contagocce. Nell’ultimo anno la base monetaria è cresciuta di circa 900 miliardi e gli effetti positivi si sono visti. Pensate se ciò sarebbe stato attuato nel 2011? Il Pil sarebbe cresciuto prima, avremmo avuto meno crediti incagliati sulle banche e quindi meno banche in difficoltà.
Altro è il problema fiscale che abbiamo in Italia, dobbiamo finanziare la spesa pubblica più alta dell’Europa, qui si deve agire su essa è non chiedere sempre flessibilità, ossia ulteriore debito.