Al G20 di Hangzhou, la Cina ha giocato tutte le sue carte per presentarsi come una vera superpotenza. E ha ottenuto alcuni risultati importanti su innovazione e sviluppo sostenibile. Minori i progressi sul commercio. L’impegno, insieme agli Stati Uniti, a ratificare l’accordo di Parigi sul clima.
Luci e ombre del summit
Dal 2009, il G20 ha assunto la funzione di premier forum for international economic cooperation (principale forum per la cooperazione economica internazionale) e in occasione di ogni suo summit l’attenzione si concentra sulle decisioni macroeconomiche. Esercizio legittimo, ma poco gratificante. Perché lascia sempre un certo amaro in bocca constatare che neanche i “grandi della terra” possano fare molto per rilanciare la crescita e temperare la volatilità dei mercati. Ma anche improprio perché nasconde la faccia più sostanziale del G20, che consiste nell’indicare le agende di lavoro per i negoziati intergovernativi. Come valutare allora il G20 di Hangzhou? La presidenza cinese aveva scelto un tema in parte nuovo – “breaking a new path for growth” (avviare un nuovo percorso di crescita) – per proiettarsi oltre il confronto ormai sterile tra rigore e rilancio. Se l’obiettivo era evitare le parole vuote, Xi Jinping ha ottenuto almeno alcuni dei risultati cui ambiva. In particolare, il G20 riserva un ruolo centrale al tema dell’innovazione, concetto certo fluido, ma che sembra sostanziarsi soprattutto nella nuova rivoluzione industriale resa possibile dalle applicazioni dell’economia digitale. In più, il G20 si impegna a sviluppare indici per accompagnare il progresso nei nove campi prioritari delle riforme strutturali. Non è però sicuro che Pechino sia pronta a sottostare agli obiettivi ambiziosi che Fondo monetario internazionale e Ocse fissano per rendere l’economia cinese più libera dai condizionamenti dello Stato e del Partito. Né che ci siano gli incentivi sufficienti per un’azione coordinata per accelerare la crescita e garantirne l’equità. Anche sullo sviluppo sostenibile, la Cina ha ottenuto risultati importanti. I capi di stato e di governo riconoscono la priorità dello sviluppo nell’elaborare il quadro di riferimento della politica macroeconomica globale e danno l’incarico ai propri governi di elaborare piani d’azione per realizzare la UN 2030 Agenda for Sustainable Development. Poco più che un vago riferimento invece sulle migrazioni, tema che è chiaramente centrale per l’Europa (e cui sicuramente la Germania dedicherà grande attenzione nel suo G20 nel 2017), ma che lascia freddini gli asiatici. A pochi giorni dalla decisione sulla Apple in Irlanda, era difficile che non si ribadisse l’importanza della trasparenza fiscale, con la minaccia di definire (all’Ocse) una nuova black list di giurisdizioni che non applicano la regola degli scambi automatici d’informazione, una decisione che oltretutto serve anche nella lotta contro il finanziamento del terrorismo. In compenso, sull’architettura finanziaria internazionale il G20 rimane in alto mare, malgrado l’indubbio successo che la Cina ha conseguito con l’inclusione del RMB nel paniere delle valute degli Special Drawing Rights (Sdr) del Fondo monetario. La quindicesima General Quota Review non è stata ancora completata e il dibattito sui controlli di capitale e la regolamentazione macro-prudenziale continua a dividere il G20.
I dossier sul commercio internazionale
Esiti contrastanti anche per le regole degli scambi internazionali. Da un lato, si registra l’ennesimo appello a raddoppiare gli sforzi per lottare contro il rallentamento del commercio internazionale. Sono però ormai dieci anni che i capi dispongono e i ministri non riescono a fare molto al Wto- World Trade Organization. Sarà utile vedere se almeno sullo scottante dossier della siderurgia si registrerà qualche passo in avanti. D’altro lato, nel 2016 gli investimenti internazionali sono diventati un nuovo tema nell’agenda del G20 e il comunicato finale fissa i confini ampli per un mandato a negoziare un giorno un accordo multilaterale per la loro promozione e protezione. Sul fronte della lotta alla corruzione e del recupero dei patrimoni trasferiti illegalmente, si registra quest’anno un progresso, quantomeno sul piano della retorica, ma non ancora su quello dell’azione. Risultati insomma non disprezzabili, ma certo siamo ancora lontani dalla riscrittura delle regole dell’economia globale. A onor del vero, un risultato importante c’è stato, l’impegno di Cina e Stati Uniti a ratificare entro fine anno l’accordo per controllare il cambiamento climatico. Visto che sono responsabili per il 38 per cento delle emissioni globali di CO2 e che per l’entrata in vigore dell’accordo di Parigi è necessaria la ratifica di cinquantacinque paesi che rappresentino il 55 per cento delle emissioni, è un passo avanti fondamentale, che lascia la patata bollente nelle mani degli altri paesi G20, tra i quali solo Francia e Corea hanno già fatto il loro dovere. Sapendo che il G20 ha accumulato ritardi poco giustificabili nell’ottemperare all’impegno di eliminare tutti i sussidi sulle energie fossili. A Hangzhou la Cina ha giocato tutte le sue carte per presentarsi come una vera superpotenza, anzi la migliore, l’unica a combinare crescita sostenuta e stabile grazie a politiche coscienziose e leadership illuminata. Non ha fallito e Xi ha saputo dosare le misure tra difesa dei propri interessi e promozione di valori economici universali. Il contesto geopolitico, però, con le tensioni in Asia orientale e le preoccupazioni per le ricadute della “nuova via della seta” sugli equilibri esistenti, rende difficile la proiezione retorica del Chinese Dream.
* Una versione più estesa di questa nota è disponibile sul sito www.nomisma.it
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SpeculaThor
Nel 900 Usa contro Urss.
Nel 2000 Usa (e Ue) contro Cina (e Urss).
Sarò pessimista ma nel lungo periodo la vedo brutta.