Al G20 di Buenos Aires Usa e Cina hanno raggiunto un’intesa di massima per fermare l’escalation della guerra commerciale. È un accordo positivo nella forma e nella sostanza. Ma occorre proseguire e ridare un ruolo centrale alle istituzioni multilaterali.

I dazi danneggiano tutti

Al summit del G20 di inizio dicembre a Buenos Aires, gli Stati Uniti e la Cina sono riusciti a smorzare i toni e di conseguenza il corso della guerra commerciale iniziata da Donald Trump a luglio. L’ulteriore round di aumenti nei dazi sulle importazioni statunitensi dalla Cina, previsto a gennaio 2019, per il momento è stato sospeso. In cambio, la Cina ha promesso, da un lato, di importare più merci dagli Usa in modo da ridurre il loro deficit commerciale. Dall’altro lato, ha promesso l’apertura di un numero più ampio di settori alle imprese americane.

Sebbene non ne siano ancora chiari i dettagli, l’accordo di massima è molto importante per due ragioni, una di sostanza, l’altra di forma.

L’accordo è positivo prima di tutto perché inverte la rotta di una tensione iniziata l’estate scorsa. La guerra commerciale è da sempre, ma a maggior ragione nel mondo iper-integrato delle filiere globali, uno strumento economico di tipo ricattatorio, volto a ottenere risultati politici. Per sua stessa natura tende a tradursi in escalation difficili da fermare, anche soltanto per motivi di reputazione (nessuno cede o desiste per non perdere la faccia nei confronti dei propri elettori e del resto del mondo). Sin dal momento in cui Trump l’ha annunciata, anche negli Stati Uniti era chiaro a quasi tutti – imprese, economisti, politici e cittadini, tranne quelli della Rust belt – che si trattava di uno strumento vetusto, inadatto ad affrontare un tema concreto per gli Stati Uniti e in gran parte condiviso dal resto del mondo.

Vetusto perché caratterizzato da logiche di potere contrarie ai principi di quel multilateralismo che ha permesso ai paesi più poveri una crescita diffusa e senza precedenti, con un’integrazione internazionale che ha portato milioni di persone fuori dalla povertà, nello stesso tempo garantendo ai paesi più ricchi grandi profitti per le imprese che hanno saputo sfruttare meglio i benefici degli accordi internazionali. Si tratta poi di uno strumento inefficiente non solo perché non risolve il problema della riduzione del disavanzo commerciale – che dipende in parte da squilibri macroeconomici e in parte da estese reti internazionali di produzione – ma soprattutto perché causa danni economici alle proprie imprese e ai propri cittadini, oltre che a quelli degli altri paesi.

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Oggi sono in vigore dazi su circa l’85 per cento (250 miliardi di dollari) di import statunitense dalla Cina. Dal 6 luglio sono stati introdotti dazi del 25 per cento su 818 beni, importati soprattutto dalla Cina, per un valore di 34 miliardi di dollari, a cui se ne sono aggiunti altri, dal 23 agosto, pari al 25 per cento su 279 voci per un valore di 16 miliardi di dollari. Vi rientrano beni intermedi per l’industria (per il 41 per cento) e macchinari (per il 43 per cento). Ciò significa che nel complesso i costi di produzione per le imprese statunitensi sono aumentati di 10,5 miliardi di dollari, cifra che corrisponde al maggior costo degli input importati. Poiché le reti di fornitura non si cambiano dalla sera alla mattina, e a maggior ragione negli Stati Uniti dove interi settori sono emigrati fuori confine, i dazi finiscono per non giocare certo a favore delle imprese americane, proprio quelle che Trump vorrebbe invece favorire con la guerra commerciale.

Dal 24 settembre sono poi in vigore dazi del 10 per cento su 5.745 importazioni che rappresentano un valore importato di 200 miliardi di dollari. La lista qui è molto diversa dalla prima, include infatti molti beni di consumo, tra cui abbigliamento, pelletteria, elettronica di consumo, alimenti e bevande. Quando i consumatori statunitensi si accorgeranno del costo effettivo per le loro tasche dell’obiettivo America first, forse si chiederanno se ne sia valsa la pena.

Nuovo ruolo per le istituzioni multilaterali?

Anche nella forma, l’accordo di massima tra Usa e Cina è da considerarsi positivo. È infatti il risultato di un summit che ha riportato in primo piano la logica della politica di gruppo, mettendo fine a quella che sembrava la brutta versione di un G2. Le due più grandi economie devono certo trovare forme di coesistenza tra di loro, ma affrontare e gestire gli squilibri e le sfide bilaterali senza considerare le interdipendenze con il resto del mondo è insensato e rischioso.

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A Buenos Aires è stata evitata un’ulteriore escalation della guerra commerciale, ma Stati Uniti e Cina devono ancora lavorare molto per scongiurare altri fronti di conflitto. Se gli Usa vogliono arrestare l’avanzamento tecnologico della Cina, le sole politiche commerciali non sono lo strumento più adeguato. Le precedenti amministrazioni Clinton e Obama avevano mostrato che si può trovare un modo condiviso e lecito per affrontare le ambizioni cinesi, attraverso i trattati “megaregional”, primo fra tutti il Tpp (Parternariato traspacifico). Un altro modo è quello di dare al Wto (Organizzazione mondiale del commercio) strumenti adeguati per affrontare i temi da cui nascono le tensioni odierne, che si manifestano sì sul versante commerciale, ma che hanno altrove le loro origini. E per farlo occorre un ampio consenso internazionale, altrimenti le istituzioni multilaterali perderanno qualunque efficacia.

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