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Popolare di Vicenza e Veneto banca, un matrimonio forzato

Sembra non esserci alternativa alla fusione tra Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Anche i precedenti storici spingono in quella direzione. A pagare saranno gli impiegati più degli azionisti. Le responsabilità della magistratura, rimasta ferma dopo le segnalazioni della Banca d’Italia.

Fusione chiesta a gran voce

Il presidente di Atlante, Alessandro Penati, con una lettera perentoria ha invitato i vertici della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca a considerare una fusione tra i due istituti. La Banca centrale europea pressa affinché venga fatta ulteriore pulizia nell’attivo e vengano coperti eventuali deficit patrimoniali. Il piano 2017-2019 dovrà essere approntato entro la fine dell’anno e dovrà indicare le misure previste per assicurare la sostenibilità della continuità aziendale e le sinergie rispetto all’ipotesi di rimanere autonome. Giusto ricordare che le ultime semestrali si sono chiuse con ingenti perdite, per un totale di 1.067 milioni (795 a Vicenza, 272 a Montebelluna).
Gianni Mion – presidente della Popolare di Vicenza – ha già comunicato la presenza di almeno 1.500 esuberi. Con un rapporto tra costi operativi e margine di intermediazione (cost-income) superiore al sistema bancario italiano e con elevati tassi di remunerazione (ben sopra il mercato)  garantiti ai depositanti per incrementare la raccolta, l’unica alternativa è tagliare il costo del personale. Tra i tanti errori della gestione Gianni Zonin, vi è anche quello di aver comprato a prezzi di affezione sportelli bancari quando la migrazione dei servizi sul web era già in fase avanzata e oggi gli impiegati ne subiranno dure conseguenze.

Il precedente storico

Molti osservatori sono rimasti sorpresi dalla crisi delle due banche venete. Ma se si allarga lo sguardo nella storia, la sorpresa svanisce. Si potrebbe dire “niente di nuovo sotto il sole”, perché già negli anni Venti, circa novant’anni fa, tutto il Veneto fu costellato di banche in crisi.
Nel volume Donato Menichella. Stabilità e sviluppo dell’economia italiana 1946-1960 si racconta la crisi delle “banche cattoliche”. Si trattava di 48 banche, tra cui Banco di Santo Spirito, Banco San Geminiano, Banco San Prospero, Banca Cattolica Vicentina.
La crisi maturò a partire dal 1925 e si aggravò negli anni successivi. La vicenda fu importante per la massa complessiva dei depositi delle banche coinvolte, che era pari al 3 per cento dei depositi dell’intero sistema bancario; e per l’entità delle perdite, valutate circa un quarto dei depositi.
Menichella, che fino a quel momento si era occupato della liquidazione della Banca italiana di sconto, studia la situazione su incarico del direttore generale della Banca d’Italia Bonaldo Stringher, e matura la convinzione che manchino le condizioni per un’azione efficace, in primo luogo perché nessun soggetto intende stanziare i fondi per la copertura delle perdite.
Siccome al tempo non esisteva né fondo interbancario di tutela dei depositi, né il fondo di risoluzione unico per le crisi bancarie, l’ente di salvataggio (Istituto centrale di credito), privo di risorse, fu costretto a chiudere le banche più gravemente dissestate, per le quali vennero approvati concordati con i creditori, rimborsati per circa il 40 per cento. Si può parlare di un bail-in d’altri tempi visto che i depositanti ci rimisero ben oltre la metà del capitale.
Le fusioni conseguenti, dirette a rafforzare la solidità degli attori in gioco, portarono al raggruppamento regionale delle “banche cattoliche” sopravvissute. Così la Banca Cattolica del Veneto (ex Banca Cattolica Vicentina) – che in seguito si fonderà con Nuovo Banco Ambrosiano – riunì gli istituti della regione.
Già nel 1928 Menichella considerava importante far pagare dazio agli azionisti delle banche dissestate. In un promemoria al ministro delle Finanze, Giuseppe Volpi, si legge: “La creazione dell’ente proposto dai dirigenti delle banche cattoliche porterebbe fatalmente a un salvataggio globale di tutti gli istituti, troppo oneroso per lo Stato. Bisogna invece lasciare che le banche più dissestate muoiano, e risanare le altre”.

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Responsabilità dei giudici

Fare banca è una cosa seria. Così come importante è l’attività di vigilanza. Si può sostenere con Marco Onado  che sia mancato il “pettine” per estirpare i nodi dell’attività creditizia delle banche venete, incapaci di valutare il merito di credito. Chi scrive pensa che le maggiori responsabilità vadano attribuite alla magistratura che ha ricevuto anni addietro i rapporti ispettivi dalla vigilanza della Banca d’Italia. Una volta scoperte le irregolarità, la vigilanza non ha poteri inquirenti, che spettano ai giudici. Peccato che i giudici di Vicenza fossero così intimi dei banchieri (se possiamo chiamarli così) Zonin e Consoli (Vincenzo, ex amministratore delegato di Veneto Banca, ora – tardivamente – agli arresti domiciliari) da aver deciso di non indagare per tempo e mettere sotto accusa i responsabili di quelle pessime gestioni.

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Terzo valico, una grande opera inutile

  1. Mi permetto di aggiungere all’articolo, che la territorialità delle popolari in questione, era talmente simbiotica che noti personaggi istituzionali hanno “subito”, piu’ o meno scientemente, da parte delle banche, la strategia della cattura e del relativo condizionamento e ammorbidimento di eventuali procedure sia preventive nella vigilanza, che repressive di eventuali frodi. Non è un caso, e lo ritengo correlato positivamente, il fatto che la governance per un ventennio sia rimasta saldamente in pugno allo stesso soggetto. Inoltre il territorio aveva eretto ad architettura sistemica lo scambio fido/apertura di credito con la raccolta del risparmio, il piu’ delle volte originato da compiacenti iniezioni di investimenti aziendali “fuori bilancio”.

  2. Trovo queste critiche all’occasione dei funerali delle due banche di pessimo gusto. Perché non aver denunciato prima, alla procura? Non vedo nulla da rimproverare al fatto che una banca provi a coprire crediti (con depositi), al contrario, l’avessero fatto (tutti) di più. Se qualcuno sa chi l’ha fatto con depositi non dichiarati all’estero, si denunci, non si insinui. I clienti non sono stati danneggiati perché potevano cambiare banca. La storia è interessante, ma non c’entra con i problemi di oggi. BdI scopre irregolarità, ma non ha mezzi né inquirenti né sanzionatori; è l’argomento di Ponzio Pilato; non è credibile. Se tutto è causato da connivenza fra i vertici delle banche e i giudici – un’accusa di una gravità inaudita – bisognava denunciarlo in tempi non sospetti. Vero: “l’unica alternativa è tagliare il costo del personale. Tra i tanti errori della gestione Gianni Zonin, vi è anche quello di aver comprato a prezzi di affezione sportelli bancari quando la migrazione dei servizi sul web era già in fase avanzata e oggi gli impiegati ne subiranno dure conseguenze”. Bella scoperta! Valesse solo per la banca di Zonin! Perché, mi domando invece, si pensa poter fare un operatore valido da due modelli fallimentari? L’immagine che si ricava è che (quasi) tutto è marcio da tempo e che gli organi di vigilanza e i giudici decidono chi distruggere (i piccoli, spesso vittime degli onnipotenti – e potrei raccontare di più) e chi lasciar vivere per logica di sistema. Già, quale sistem

    • Maria Cristina Tagliabue

      Quanto è stato preciso per il passato tanto lo è stato per il futuro, che si è avverato. Onestà intellettuale e capacità analitiche, mi inchino.

  3. bob

    ..”Tra i tanti errori della gestione Gianni Zonin,”. Errori? Può essere “accusato” di errore colui che paga dell’errore commesso. O no? Altrimenti è umano che vengono altri dubbi

  4. Michele

    Grazie per questo articolo. Pensavo che la responsabilità fosse solo degli organi di vigilanza mentre invece…

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