Il Jobs act ha abrogato la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative introdotta dalla riforma Fornero. Con un risultato paradossale: si riapre la strada alle forme di falso lavoro autonomo che la norma del 2012 aveva contrastato. La questione del salario minimo stabilito per legge.

Caso Foodora: niente di nuovo sotto il sole

Il caso dei fattorini di Foodora – inquadrati come collaboratori coordinati e continuativi– dimostra che la crisi colpisce anche la sharing economy? O è una manifestazione della gig economy? Oppure apre a nuovi inimmaginabili scenari? A ben vedere, la vicenda pare invece l’evoluzione di un fenomeno noto dal secolo scorso. Già nel 1990, infatti, ci si interrogava sull’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro subordinato in termini di progressiva riduzione della sua area di applicazione a favore del lavoro autonomo (la “fuga dal lavoro subordinato”).
Il tema di fondo rimane sempre lo stesso: si tratta di lavoro autonomo genuino o di un suo uso fraudolento (bogus self employment)?
Nel 2010, sette anni dopo l’introduzione del lavoro a progetto a opera della cosiddetta riforma Biagi, secondo Isfol Plus, i falsi autonomi erano oltre un milione. Il Jobs act pertanto ha deciso di rafforzare l’opera di pulizia. Tuttavia, stando alla cronaca recente, l’operazione presenta dei rischi. Infatti, abrogando proprio il lavoro a progetto, si è previsto l’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato anche al lavoro autonomo “etero-organizzato”, quando cioè il committente esercita un coordinamento spazio-temporale sull’esecuzione della prestazione lavorativa. Paradossalmente, il nuovo criterio della etero-organizzazione, se consente di qualificare come falsa la collaborazione conclusa per mansioni di segreteria, appare “disarmato” di fronte alle nuove tecnologie (come ha dovuto ammettere il nuovo Ispettorato nazionale del lavoro sentito dalla Commissione lavoro del Senato), perché queste agevolmente consentono lo svolgimento della prestazione fuori dall’impresa e senza un vincolo orario. Le co.co.co – comprese quelle fittizie – rischiano allora di riprendere la propria corsa, anche perché non più spiazzate dallo sgravio contributivo che nel 2015 ha sospinto il lavoro subordinato.

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Dalla riforma Fornero al Jobs act

L’intervento legislativo che, stando ai numeri, ha compiuto una decisa pulizia è stata la riforma Fornero del 2012. I dati della Gestione separata Inps mostrano che nel 2013 i co.co.co, nel complesso, sono diminuiti quasi del 12 per cento, per poi stabilizzarsi nel biennio successivo, pur continuando a scemare. Lo stesso effetto è stato registrato dalle comunicazioni obbligatorie dovute in caso di attivazione di un rapporto di lavoro.
Quella riforma agiva non solo sulla fattispecie civilistica, imponendo il divieto di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, nonché stringenti criteri presuntivi per individuare le collaborazioni fittizie (monocommittenza e compenso inferiore a un limite legale), ma in assenza di una specifica contrattazione collettiva introduceva anche la possibilità che il compenso dei collaboratori fosse parametrato alle retribuzioni minime previste dai contratti nazionali per i lavoratori dipendenti comparabili. L’obiettivo, come delle norme che pareggiano il costo contributivo di lavoro subordinato e co.co.co, è quello di abbatterne le differenze di costo, per scoraggiare l’uso improprio delle seconde, quale mera strategia di risparmio.
Il Jobs act, tuttavia, ha abrogato tutta questa disciplina, al contempo cassando quel – seppur minimo – “zoccolo duro” di tutele per i collaboratori opportunamente introdotte dalla riforma Biagi (obbligo di un termine, sospensione in caso di gravidanza, malattia e infortunio).
Sull’ultima questione si sta cercando di trovare un rimedio. Nell’ambito di un disegno di legge governativo in discussione, si dispone un rafforzamento di quelle garanzie. Tuttavia – quasi per contrappasso – il ripristino delle tutele comporterà una crepa nel principio, ora assoluto, etero-organizzazione uguale lavoro subordinato: il disegno di legge sembra aprire all’esercizio del potere di coordinamento del committente sul collaboratore, che l’attuale formulazione legislativa invece pare fortemente limitare.
Il Jobs act, d’altro canto, prevedeva che il nuovo “compenso orario minimo” stabilito per legge si sarebbe applicato anche alle co.co.co (“fino al loro superamento”). Nel panorama comparato l’estensione del salario minimo oltre il lavoro subordinato costituisce una anomalia (forse paragonabile alla estensione del National minimum wage in Inghilterra), ma la delega coglieva quella che ci sembra la questione fondamentale. Peccato che quella parte sia rimasta inattuata, poiché inserita nell’ambito di un istituto – il salario minimo legale – che nessun sindacato italiano sembra volere.
In conclusione, ci sembra che l’obiettivo di una esaustiva, veloce e meno onerosa pulizia del falso lavoro autonomo possa essere più pragmaticamente perseguita non tanto operando sotto il profilo qualificatorio – che comunque sconta una necessaria mediazione giudiziaria – quanto agendo sul profilo della remunerazione, e quindi del costo del lavoro, come aveva fatto il legislatore nel 2012.

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