Apertura economica e commercio internazionale sono stati al centro della campagna elettorale Usa. E saranno temi importanti anche nell’Europa del 2017. Il protezionismo è oggi un’opzione politica allettante. Ma oltre a creare danni all’economia mondiale potrebbe alimentare tensioni geopolitiche.
Perché ha vinto Trump
Apertura economica e commercio internazionale sono stati al centro della campagna elettorale statunitense. Entrambi i candidati alle presidenziali hanno espresso – seppure in misura variabile – un certo scetticismo su questi temi. Ed è una perplessità di fondo che sta assumendo sempre più importanza, specie in contesto europeo, e che sarà probabilmente centrale negli eventi politici globali del 2017.
Una interpretazione frequente del successo elettorale di Donald Trump è che sia il sintomo di una rivolta dei cosiddetti “perdenti” della globalizzazione: operai e impiegati di una classe media il cui reddito è rimasto stagnante dalla fine degli anni Ottanta, tanto da far temere la morte del “sogno americano”. La realtà degli ultimi tre decenni è effettivamente stata diversa dall’ideale di mobilità sociale intergenerazionale descritto dallo storico James Truslow Adams nel 1931. Raj Chetty e altri studiosi dell’università di Stanford hanno stimato che la probabilità di guadagnare da adulti più dei propri genitori è scesa dal 90 per cento per gli americani nati negli anni Quaranta al 50 per cento per quelli nati della generazione successiva. A partire dagli anni Ottanta si osserva anche un calo della mobilità interna nel mercato del lavoro americano – storicamente molto fluido – che contribuisce a rendere il problema più acuto.
Per chi resta immobilizzato in aree in cui le opportunità sono poche e il rischio economico è alto, la promessa di “protezione” da quelle che sembrano minacce esterne è attraente. Due recenti lavori di David Autor e altri (qui e qui) mostrano che nelle aree degli Stati Uniti più esposte alla competizione delle importazioni cinesi, l’aumento di queste è associato a disoccupazione più elevata, minore partecipazione alla forza lavoro e salari ridotti. Analizzando i risultati delle elezioni congressuali dal 2002 al 2010, gli autori notano poi una tendenza alla radicalizzazione delle preferenze politiche in quei distretti elettorali. Alcuni aspetti dei risultati delle presidenziali del 2016 sembrano in linea con questa lettura: la vittoria di Trump è stata schiacciante in modo particolare nelle contee economicamente provate e ad alta densità dei cosiddetti “routine jobs” – i lavori facilmente sostituibili con automazione o esternalizzazione.
L’illusione del protezionismo
Non è l’unica possibile interpretazione della vittoria del candidato repubblicano, ma è una lettura in linea con la forte opposizione popolare negli ultimi agli accordi commerciali internazionali – come il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), il tentativo di accordo commerciale tra Europa e Stati Uniti. Se è vero che gli economisti e i politici discutono ormai da tempo degli effetti distributivi della globalizzazione, è altrettanto vero che ancora non esiste completa chiarezza riguardo a cosa i governi possano concretamente fare per compensare quanti ne escono “perdenti”.
La tentazione protezionista diventa così appetibile dal punto di vista politico. Ma non è una soluzione. In campagna elettorale, Trump ha garantito ai suoi elettori una svolta drasticamente protezionista, che molti osservatori paragonano al precedente storico dello Smoot-Hawley Tariff Act introdotto dal Congresso nel 1930, sotto la presidenza di Herbert Hoover. Tra le promesse di Trump, c’è l’imposizione di una tariffa del 35 per cento sulle importazioni dal Messico e del 45 per cento sulle importazioni dalla Cina, la rinegoziazione dell’accordo di libero scambio nord americano (North American Free Trade Agreement, o Nafta) e il ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).
Resta da vedere quanto di questo programma sarà possibile attuare – sia sul versante legale sia su quello politico. Tuttavia, gli effetti economici potrebbero essere dirompenti. Nel mondo del 21esimo secolo, in cui la produzione industriale ha carattere globale, export e import non sono facilmente separabili: se si guarda al top 1 per cento delle imprese esportatrici americane, il 90 per cento sono anche importatrici. A un rinnovato protezionismo americano, i partner commerciali risponderebbero con misure analoghe. Marcus Noland e altri esperti del Peterson Institute of International Economics stimano che il piano Trump potrebbe quindi scatenare una guerra commerciale che manderebbe in recessione l’economia statunitense e costerebbe più di 4 milioni di posti di lavoro nel settore privato.
E se il potenziale impatto economico è motivo di preoccupazione, la vera inquietudine dovrebbe venire da quei rischi di cui abbiamo una ancor minor chiara misura. Come nota l’economista Barry Eichengreen, un effetto collaterale dell’esperienza protezionistica degli anni Trenta fu quello di danneggiare il funzionamento del sistema finanziario internazionale e portare al collasso dei flussi di capitale che sono la controparte dei flussi commerciali.
È poi difficile immaginare che un conflitto commerciale possa essere combattuto, nel mondo odierno, senza che si sviluppino tensioni geopolitiche altrettanto rilevanti. Per un’Europa che si trova sotto pressione esterna – nel fronteggiare la crisi dei rifugiati – e interna – nel contrastare tensioni nazionaliste e populiste sempre più forti –potrebbe essere una prova molto difficile da superare.
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Henri Schmit
Le considerazioni (cause della vittoria di Trump, effetti e controeffetti del protezionsmo) sono convincenti; è difficile prevedere effetti di misure protezionistiche di cui non si sa se sarano effettivamente adottate e di cui non si conoscono i dettagli. Ma la tendenza è quella. La globalizzazione è un concetto equivoco: è un dato di fatto o un modello di sviluppo? Fa impressione che il premier Xi la difenda (oggi) a Davos contro quello che si prepara (o si minaccia) negli USA e in una salsa diversa (senz’altro più intelligente) in UK. Fino a un certo punto l’economia è e rimarrà comunque globale (trasporti, communicazioni, evoluzione di numerosi paesi in economie competitive). Con l’abolizione delle sanzioni (americane che hanno colpito l’Europa) la Russia ridiverrà un mercato importante. A ciascun paese o sistema di paesi posizionarsi come meglio crede. Gli USA rischiano di non vendere più auto all’estero, in particolare in MX; nonstante le rassicurazioni opposte l’UK rischia che le case automobilistiche giapponesi, a cui non conviene obiettivamente produrre oltremanica, si trasferiscano altrove; peggio per l’industria dei prodotti finanziari; saranno costretti a diventare un paradiso fiscale, off-shore in tutti i sensi. L’opportunità per l’UE, per i paesi più efficienti, è enorme. La domanda è se qualcune saprà cogliere l’occasione, lavorare per sfruttare il nuovo contesto, immediatamente. Forse Macron in Francia l’ha capito; ma non basta Macron.
enzo
Certo viaggiamo verso tempi nuovi. Se sarà vero protezionismo nonostante wall street si vedrà. Certo vedere il leader cinese come campione della globalizzazione, ed emulo di ricardo è divertente. Qualche tempo fa gli occidentali imposero all’ impero cinese la liberalizzazione del commercio , oppio compreso, con una guerra. Non mi sembra che ai cinesi glie ne vennero grandi vantaggi…
PAOLO DEL ROMANO
Condivido lo scenario di Henri Schmit. La UE o alcuni paesi della UE potrebbero avere dei vantaggi che si creerebbero con le scelte isolazioniste del Regno Unito. E comunque non è detto che la Scozia non si opponga e quindi blocchi il disegno strategico dei vincitori brexit
Nicola
“La UE o alcuni paesi della UE potrebbero avere dei vantaggi che si creerebbero con le scelte isolazioniste del Regno Unito”
L’inghilterra importa dall UE per 129 mld di euro/anno, sopratttto mercedes, bmw, audi e wolkswagen.
Mettiamo che vengano tassate queste importazioni e detassate le auto inglesi, bently, mc laren, jaguar… CHI CI PERDE ?