L’elezione di Donald Trump dopo una campagna elettorale incentrata sul ritorno alla politica protezionista ha creato forti preoccupazioni in Brasile. Ma sul piano commerciale la situazione è molto più favorevole di quanto si pensi. I problemi potrebbero venire dalle turbolenze finanziarie.

Gli scambi Usa-Brasile

Il mondo politico ed economico brasiliano ha accolto con forte preoccupazione la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa. La reazione iniziale dei mercati ha rasentato il panico: il real si è deprezzato del 7 per cento circa in tre giorni, obbligando la banca centrale a interventi sul mercato a vista e dei derivati, e la borsa ha perso quasi l’8 per cento. Dopo lo shock iniziale, analisi a mente più fredda hanno iniziato a mostrare che il Brasile sarebbe colpito solo marginalmente da un eventuale ritorno al protezionismo americano.
Il Brasile è tradizionalmente un’economia relativamente chiusa, con un grado di apertura reale – misurato come peso dei flussi di commercio estero su Pil – intorno al 25 per cento nella media degli ultimi cinque anni (rispetto al 45 per cento circa dei paesi latinoamericani) e una scarsa integrazione alle catene globali del valore. Eventuali misure protezionistiche avrebbero quindi un impatto modesto sul paese.
Sui rapporti con gli Stati Uniti, è necessario in primo luogo sottolineare come la bilancia commerciale brasiliana sia strutturalmente in deficit. Nel 2016 il saldo a favore degli americani ha superato i 600 milioni di dollari. I dati di questi ultimi mesi sono, tra l’altro, poco espressivi del trend degli ultimi anni. Nel 2013 il deficit era arrivato alla cifra record di 11 miliardi di dollari. Da allora, a causa della crisi economica, le importazioni brasiliane in valore si sono ridotte molto più che le esportazioni (-34 per cento e -6 per cento rispettivamente negli ultimi tre anni). Ben differente è la situazione di altri paesi. Per avere un’idea, tra ottobre 2015 e ottobre 2016, il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina (che rappresenta il 21,5 per cento dell’import Usa) è stato di 350 miliardi di dollari, con l’Unione Europea (19,5 per cento dell’import) di 147 miliardi, con il Messico (13,7 per cento dell’import) di 36 miliardi e con il Canada (12,9 per cento dell’import) di 8 miliardi. In tutti questi casi le politiche promesse da Trump avrebbero un impatto molto più forte.
In secondo luogo, le merci brasiliane costituiscono appena l’1,1 per cento del totale dell’import americano. Non solo, la maggior parte dei prodotti importati dal Brasile sono materie prime o commodities, che non minacciano posti di lavoro statunitensi. Politiche protezionistiche contro il Brasile non avrebbero quindi molto senso. Inoltre, se Trump attuasse le sue promesse di un robusto piano di spesa pubblica, fondato sull’espansione delle infrastrutture nazionali, aumenterebbe la domanda di materie prime o prodotti di base, indispensabili per costruire ferrovie, strade o ponti. Chiudere le frontiere ai prodotti brasiliani diverrebbe così impossibile. Dall’altro lato, però, il mercato statunitense assorbe oggi il 12,5 per cento di tutto l’export brasiliano. Un’importante fonte di valuta pregiata per il gigante latinoamericano. E quindi se Trump realmente alzasse barriere, il Brasile perderebbe un importante mercato di sbocco.
Infine, gli Stati Uniti hanno in Brasile uno stock di oltre 134 miliardi di dollari in investimenti diretti esteri (contro uno stock di 12 miliardi brasiliani negli Usa), principalmente in attività rivolte a soddisfare la domanda interna brasiliana, quindi non in concorrenza coi produttori statunitensi. Una differenza notevole rispetto agli investimenti americani in Cina o Messico.
Il problema per il commercio del Brasile si pone semmai indirettamente: se Trump dovesse realmente applicare un dazio doganale del 35 per cento sulle merci cinesi, il probabile rallentamento dell’industria in quel paese avrebbe un immediato effetto sulla domanda di commodities prodotte in Brasile, abbattendone il prezzo (già oggi sensibilmente più basso rispetto ai picchi degli anni scorsi) e riducendone la quantità esportata. E Pechino rappresenta quasi il 20 per cento delle esportazioni brasiliane.

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Le condizioni finanziarie

Le preoccupazioni maggiori potrebbero venire invece dalle turbolenze sui mercati finanziari, se la nuova politica fiscale espansiva dovesse accompagnarsi a un inasprimento delle condizioni monetarie Usa più intenso del previsto. Gli investitori internazionali riprenderebbero le manovre di “disimpegno” dal Brasile, dirottando la propria liquidità verso gli Usa.
Il Brasile, che ha tradizionalmente un basso tasso di risparmio (17,8 per cento del Pil in media negli ultimi cinque anni, a fronte del 21 per cento di investimenti), si troverebbe così in una situazione ancora più complicata per finanziare gli investimenti necessari a avviare la ripresa economica e accrescere il prodotto potenziale. Un deprezzamento del real, poi, metterebbe a repentaglio gli sforzi della banca centrale di allentare le condizioni monetarie, rischiando di trasmettersi rapidamente all’inflazione e disancorando le aspettative dall’obiettivo dell’autorità monetaria (4,5 per cento).
Le più difficili condizioni finanziarie, quando il settore privato è ancora molto indebitato, rallenterebbero e indebolirebbero la già tenue ripresa della domanda interna. I dati della Banca dei regolamenti internazionali mostrano, in particolare, che il debito delle imprese non finanziarie brasiliane è aumentato di quasi 20 punti percentuali di Pil negli ultimi dieci anni. La gran parte dell’aumento è dovuto alla emissione di bond spesso denominati i dollari. E quindi un eventuale deprezzamento del real avrebbe un effetto molto negativo sui bilanci delle imprese. Il Fondo monetario internazionale mostra che le imprese brasiliane nel 2016 erano quelle con la peggiore capacità di servire il debito, con il rapporto tra margine operativo lordo (Ebitda) e spesa per interessi (il cosiddetto interest coverage ratio) più basso in un campione di diciotto paesi emergenti.

*Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo gli autori e non le istituzioni di appartenza.

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