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Sarà la finanza a fermare l’oleodotto della discordia?

Una infrastruttura molto discussa per trasportare un greggio particolarmente inquinante e difficile da estrarre. Che sarebbe utile solo se il prezzo del petrolio aumentasse di molto. Così l’oleodotto Keystone XL, bloccato da Obama e autorizzato da Trump, può rivelarsi un investimento rischioso.

Decisioni opposte per due presidenti

Il pirotecnico esordio alla presidenza Usa di Donald John Trump ha prodotto anche una feroce polemica su una questione che riguarda il mercato dell’energia.
Per pura analogia con la dichiarazione di cancellazione di parte dell’Obamacare, il 45° presidente degli Stati Uniti ha provveduto ad annullare un atto del suo predecessore su una questione assai spinosa. Nel novembre del 2015 il presidente Obama aveva infatti negato l’autorizzazione alla realizzazione dell’oleodotto Keystone XL, un’infrastruttura che avrebbe collegato la zona petrolifera dell’Alberta (Canada) con il Golfo del Messico.
Si tratta di opera complessa, che si snoda per oltre 1800 chilometri, attraversando gli Stati Uniti fino alle raffinerie del Texas situate sul Golfo del Messico (vedi figura 1). L’opera – voluta da una azienda canadese (Transcanada) – comporta un investimento che oggi è stimato intorno ai 5 miliardi e mezzo. A regime, l’oleodotto dovrebbe trasportare 850mila barili al giorno. Più o meno, sarebbe otto volte più grande dell’oleodotto Eni in Basilicata.
Come nel riflesso di uno specchio, le ragioni della bocciatura da parte di Barack Obama sono diventate esattamente quelle per cui l’amministrazione Trump ha riaperto i giochi.
La decisione di Obama si fondava sulla necessità di non minare la leadership degli Stati Uniti in materia di cambiamento climatico. Per di più, spiegava l’amministrazione democratica, si trattava di favorire un petrolio non convenzionale, che per essere prodotto richiede tecniche particolarmente energivore e dunque ad alto contenuto di carbonio e, più in generale, ad alto impatto ambientale.
L’amministrazione Trump afferma l’esatto contrario: il paese ha bisogno di energia (fossile) e la leadership sulle questioni ambientali rimane un ferro vecchio di cui liberarsi il prima possibile.
La domanda cruciale, cui nessuno sembra molto interessato a rispondere, va oltre le attuali scaramucce e indaga la necessità o meno di fare l’investimento, i suoi costi e i relativi vantaggi.

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E se fosse solo propaganda?

Per prima cosa, è utile chiedersi a chi giova la nuova infrastruttura, chi potrebbe guadagnarne, quali sono le perdite potenziali.
Cominciamo con il chiarire che quello dell’Alberta è un greggio marginale, ovvero molto costoso da estrarre. Non solo: è un greggio molto pesante. Il nome corretto sarebbe quello di “sabbie bituminose” e, per capirci, si può dire che si tratta di un greggio poco “liquido” dal punto di vista fisico. Esige perciò una raffinazione complessa e dunque costosa, che implica anche una maggiore quantità di emissioni CO2 a parità di greggio lavorato.
È stato calcolato che la raffinazione di una pari quantità di greggio di qualità migliore ridurrebbe le emissioni di CO2 del 20 per cento rispetto alla soluzione “sabbie bituminose”.
Ma al di là di tutto ciò, è possibile che l’oleodotto Keystone XL sia effettivamente inutile senza un incremento sostanziale e stabile del prezzo del petrolio. Un aumento sempre possibile e teoricamente legato, per esempio, a interventi dell’amministrazione americana rivolti a privilegiare la produzione nazionale a scapito delle importazioni.
Una manovra simile renderebbe il mercato più nervoso e dunque si rifletterebbe sui prezzi, che potrebbero arrivare a quel valore (70 dollari?) che aiuterebbe Keystone XL ma che, allo stesso tempo, potrebbe risvegliare anche una possibile competizione Usa-Canada su questo particolare tipo di greggio: andato in letargo a causa della diminuzione dei prezzi internazionali, già a 55 dollari per barile la sua produzione dà segni di risalita.
La realtà dell’oleodotto è dunque parecchio più complessa e trovare una combinazione che permetta a Keystone XL di imporsi sul piano industriale senza incontrare la feroce competizione di petrolio americano (o di importazione) non sarà semplice.
Potrebbe essere utile e diventare più competitivo se e quando la produzione dello shale oil statunitense dovesse diventare ancora più costosa oppure diminuisse; o quando il divario domanda-offerta mondiale di petrolio dovesse farsi decisamente più marcato, cosa che non sembra esattamente dietro l’angolo.
Non va infine trascurato un problema di natura puramente finanziaria, legato a un evidente rischio di natura politica: per esempio, un cambio di amministrazione negli Usa fra quattro anni potrebbe portare all’introduzione di una forma di carbon tax, oppure all’adozione di provvedimenti che comunque mirino a mettere sotto controllo il livello delle emissioni di CO2 negli Stati Uniti.
L’eventualità rappresenterebbe la pietra tombale per il bituminoso Keystone. Considerato quindi che gli oleodotti sono progetti di lungo periodo e molto costosi, mal si sposano con un investimento che rischia di essere spiazzato a medio termine.
La rivincita di Obama potrebbe essere postuma, ma non per questo meno efficace: un progetto che non è stato fermato (almeno per ora) dalla politica rischia di essere cancellato a causa di una valutazione più realistica delle condizioni economiche e del tempo di ritorno dell’investimento.

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Figura 1

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  1. Pier Giorgi Visintin

    Si può pensare che sia solo propaganda: una cortina di fumo atta a nascondere l’insipienza di Trump. Come è stato già detto.

  2. Leggendo l’articolo, noto una incongruenza nel fatto che Obama non volesse l’oleodotto per favorire la produzione Usa di petrolio non convenzionale, estremamente energivoro e quindi ad alto contenuto di carbonio, con la sua sempre dichiarata attenzione all’ambiente. Tra l’altro gli shall oil/gas hanno dimostrato di essere altamente inquinanti per le falde acquifere e gli alti costi di estrazione erano giustificati solo ad un costo barile vicino ai cento dollari .

  3. Avendo riletto con maggiore attenzione l’articolo, chiedo scusa ai suoi estensori. Quel “si trattava di favorire” mi sembrava riferito alla produzione usa di shale oil. mente invece si riferiva a quella di petrolio da “sabbie bituminose” canadesi. L’incongruenza che segnalavo, legata a tale equivoco, è così inesistente

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