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Valutare le grandi opere: una necessità sempre dimenticata

Non mancano gli esempi di grandi opere che si sono rivelate uno spreco di soldi dei cittadini. Il ministero ha ora creato una struttura tecnica che valuterà gli investimenti pubblici secondo regole precise, per rendere meno discrezionali le scelte politiche. Ma riuscirà a svolgere il suo ruolo?

Tornano di moda le grandi opere

È in corso un massiccio rilancio politico delle “grandi opere”, quasi tutte di trasporto. I denari pubblici in gioco sono moltissimi e potrebbero arrivare a 70 miliardi. Una cifra enorme se si pensa agli stretti vincoli di bilancio, per investimenti tutti concentrati su un numero limitato di grandi interventi, a cui si sommano le risorse dei Contratti di programma con Fsi e Anas. In particolare, l’onerosissimo piano industriale di Ferrovie dello stato – varato di recente e accolto trionfalmente – non fa alcun cenno né alla necessità di valutare alcunché, né al fatto che la gran parte degli investimenti sono puri trasferimenti pubblici, esonerati persino dalla necessità di ammortizzarli.
Il costo totale dei soli grandi interventi ferroviari ammonta a quasi 26 miliardi di euro (Allegato al Documento di economia e finanza 2016), equivalente a oltre un terzo di quello complessivo di tutte le opere.
Ma vi sono anche molte infrastrutture autostradali di dubbia utilità e urgenza, mentre la viabilità locale, che serve la grande maggioranza degli spostamenti, si trova in uno stato di manutenzione precario.
L’entità dei costi previsti impone che le grandi opere passino al vaglio di pubbliche e approfondite analisi, sia finanziarie sia del tipo costi-benefici, da parte di valutatori “terzi” rispetto ai committenti, per evitare scelte economicamente non giustificabili, dettate da considerazioni elettorali di breve respiro (nella migliore delle ipotesi). Purtroppo, esempi di progetti infelici non mancano, dagli 800 milioni già inutilmente spesi per la stazione alta velocità di Firenze – che non si farà – ai quasi 8 miliardi spesi per l’Av Torino-Milano, scarsamente utilizzata rispetto alla capacità e con costi stimati che sono il triplo rispetto ad analoghe linee francesi.
Se è vero che la decisione finale sulle opere pubbliche deve rimanere politica, non può però prescindere dai risultati di analisi rigorose, trasparenti e comparative, né ignorare studi e valutazioni effettuate da esperti indipendenti e deve anche aprirsi a un confronto con tutte le parti interessate.
La corruzione è deprecabile, ma un danno più grave può essere inflitto alla collettività dal dedicare enormi risorse all’esecuzione di strade, linee ferroviarie o ponti non giustificati dai benefici ambientali o di un traffico che è comunque destinato a una crescita modesta per ragioni economiche e demografiche.

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La struttura tecnica di Delrio

Forse per la percezione della necessità di un cambiamento, è stata recentemente creata nel ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti una struttura tecnica (“struttura di missione”) che dovrà valutare gli investimenti pubblici secondo regole precise, per rendere trasparenti e meno discrezionali le scelte politiche. Ha prodotto delle “Linee guida” importanti e prossime all’ufficializzazione, e risulta abbia già iniziato a lavorare su diversi progetti.
L’iniziativa del ministro Delrio è lodevole e necessaria e deve ricevere il massimo supporto da parte di chi ha a cuore la cultura della valutazione e della trasparenza nelle scelte. Ma non si può fare a meno di notare che emergono anche ombre sul ruolo reale della neonata struttura, se guardiamo alle contemporanee dichiarazioni della politica. Da un lato, si susseguono infatti dichiarazioni in favore di “grandi opere” mai seriamente valutate (“cura del ferro”, opera “strategica” o che “crea 100mila posti di lavoro”, e così via). Dall’altro lato, molte scelte vengono dichiarate “irreversibili” per la presenza di forti penali in caso di mancata realizzazione. Ma le penali sono state spesso stabilite su contratti affidati senza gara, con progetti definiti solo con linee di pennarello sulle carte geografiche, e quindi con patti evidentemente lesivi dell’interesse pubblico. Prescindendo dalla consistenza giuridica delle penali (il governo Prodi cancellò quei contratti, il successivo esecutivo Berlusconi li ri-convalidò), è pur possibile valutare in modo rigoroso quali opere converrebbe alla collettività portare comunque a termine e quali sarebbero invece da cancellare o ridimensionare pur in presenza di penali (anche in funzione del loro stato di avanzamento: alcune sono appena iniziate).
Dai pochi dati disponibili emerge chiaramente che le grandi opere ferroviarie sono interamente a carico delle casse pubbliche, in quanto non ne è previsto alcun ritorno finanziario, nemmeno parziale, al contrario di quanto accade per la maggioranza degli investimenti infrastrutturali in altri settori. Quanto all’impatto occupazionale di tali opere, per unità di spesa, è notoriamente molto ridotto: al contrario del passato, si tratta oggi di un settore “capital-intensive”.
C’è dunque il rischio che la costituzione di un organismo apposito, così innovativo nei principi, copra il perpetuarsi di scelte non validate.
Considerazioni simili sono inoltre state espresse in un appello inviato pochi giorni fa al ministro Delrio, sottoscritto da quarantadue docenti ed esperti di trasporti, di orientamento politico molto differenziato.

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  1. Riccardo

    L’AV Torino – Milano è scarsamente usata perchè è un troncone monco. Quando avremo la linea completa Torino-Venezia l’utilizzazione dovrebbe aumentare.
    Leggo spesso con interesse i suoi interventi, però in parte mi pare di vedere una sua leggera avversione (posso dire preconcetta?) verso tutto ciò che ha a che vedere con treni e ferrovie.

  2. Edoardo Peterlini

    Sarebbe interessante scoprire se l’esperienza di 30 anni fa con il F.I.O. (Fondo Investimenti Occupazione) ed il suo Nucleo di Valutazione degli Investimenti Pubblici, hanno insegnato qualche cosa di utile alla applicazione di analisi quantitative e soprattutto trasparenti per la valutazione di operazioni di spesa pubblica, oppure se la spesa pubblica per infrastrutture ha ancora “bisogno” di una inefficienza di fondo per poter giustificare scambi politici e mediazioni particolaristiche. Una rilettura dei motivi di fallimento di allora potrebbe essere illuminante per le decisioni da prendere oggi.

  3. Giorgio Serafini

    Credo che una struttura tecnica di questo tipo abbia senso solamente se riuscirà a svincolarsi dagli inevitabili condizionamenti che la politica vorrà proporre. Già la riforma Madia tendeva a privilegiare la dipendenza del settore tecnico ed amministrativo da quello politico; ma è ovvio che sarebbe inutile una valutazione costi benefici orientata sulla base dei desideri , o delle opportunità, del ministro di turno al MIT.

  4. Felice Butti

    L’autorevole visione del prof. Ponti è tesa non già ad una critica aprioristica (… ad esempio “verso il sistema ferroviario”, come rileva il lettore Riccardo nel suo preg.mo commento) bensì alla doverosa riflessione che chiunque dovrebbe farsi riguardo all’impiego delle risorse pubbliche. Se è vero che il sistema dei trasporto costituisce il principale strumento di sviluppo dell’economia e, come tale, debba essere meritevole di attenzione macroeconomica, è altrettanto vero che una corretta allocazione delle risorse porta all’ottimizzazione non solo nella costruzione ma anche nell’impiego delle infrastrutture da parte dell’utenza. Sprecare qualsiasi risorsa scarsa è un abominio nei confronti della classe contribuente e questo articolo rappresenta il più calzante spunto di riflessione in tal senso. Al prof. Ponti va tutta la mia stima e, credo, quella della maggior parte dei contribuenti attenti al problema allocativo di risorse pubbliche. FB

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