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Se per le politiche vale sempre la presunzione d’efficacia *

In Italia riforme teoricamente utili finiscono spesso per non produrre gli effetti sperati. Succede anche perché la valutazione di una determinata politica si ferma alla fase legislativa, senza coinvolgere quella di attuazione.

Nessun controllo sulla fase di attuazione

Riforme teoricamente utili al paese, talvolta, non producono gli effetti attesi: una delle cause può essere un ciclo politico (policy cycle) svolto in maniera lacunosa e poco coordinata.
Il “ciclo politico” consiste nell’analisi preliminare delle ipotesi alternative per la soluzione di un problema di interesse pubblico, nella scelta di quella da attuare, nel monitoraggio dell’azione selezionata, nella verifica a posteriori dei risultati. L’ordinamento italiano ne considera solo alcune fasi e dispone controlli relativi ad aspetti limitati. Sono previste l’analisi (Air) e la verifica di impatto della regolamentazione (Vir), vale a dire la preventiva ponderazione di costi e benefici delle diverse opzioni di intervento normativo e il successivo esame della adeguatezza di quella prescelta. Tuttavia, Air e Vir riguardano solo la sfera legislativa e non quella della fase di attuazione, che è di competenza amministrativa. Peraltro, entrambe sono poco e male utilizzate. È vero che è previsto che l’Ufficio parlamentare di bilancio valuti l’impatto macroeconomico dei provvedimenti legislativi di maggior rilievo, la Corte dei conti verifichi la gestione delle risorse collettive, le Camere controllino la qualità e all’efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni, ma si tratta di attività inerenti a profili finanziari, non correlate ad altre fasi della policy né finalizzate al riscontro dei suoi esiti.
Dunque, il ciclo della politica pubblica è frammentato e i suoi diversi attori – dalla progettazione all’attuazione – non agiscono in modo integrato. Né vi è un soggetto preposto ad accertare se i risultati conseguiti siano rispondenti a quelli prefissati e, in caso negativo, quali errori abbiano inficiato la validità dell’azione. Ciò preclude la possibilità di correggere interventi già avviati, di evitare fallimenti successivi, di impedire la stratificazione di politiche contradittorie o obsolescenti.
In altri paesi, soggetti indipendenti compiono periodici esami sull’impatto delle politiche pubbliche e su chi è preposto alle diverse fasi: basti pensare al Government Accountability Office (Gao), che negli Stati Uniti fornisce al Congresso analisi sui risultati delle politiche, compreso quanto fatto delle amministrazioni; o al National Audit Office (Nao), che in Gran Bretagna controlla la spesa pubblica per conto del parlamento, vaglia le attività di ministeri e enti governativi, esamina azioni e programmi. Le loro valutazioni non entrano nel merito delle politiche, ma coadiuvano i decisori e, poiché sono divulgate, ne rendono più trasparente e sindacabile l’operato da parte della collettività.
In Italia, invece, le politiche paiono assistite da una sorta di presunzione di efficacia: mancano analisi idonee sulla congruenza tra obiettivi, mezzi e decisioni, nonché rendicontazioni precise circa gli effetti prodotti. Eppure, la conoscenza di ciò che ha funzionato o meno e la trasparenza dei relativi processi di esame è il fattore che consente ai politici di essere più forti e credibili quando avanzano proposte di modifica o ricette alternative.

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Manca la terzietà

Il legislatore sembra ora aver preso atto della situazione. Da un lato, la riforma costituzionale, respinta dal referendum di dicembre 2016, assegnava al senato il compito di valutare “le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni”. Dall’altro lato, la cosiddetta legge Madia (n. 124/2015), con la delega riguardante le “attribuzioni della presidenza del Consiglio dei ministri in materia di analisi, definizione e valutazione delle politiche pubbliche”, ha conferito rilevanza normativa all’intero ciclo politico. Ha poi disposto che i sistemi di valutazione dei dipendenti della Pa siano integrati e razionalizzati “anche al fine della migliore valutazione delle politiche”, legando quindi il giudizio sull’efficacia di queste ultime a quello sulla capacità dei singoli – soprattutto ai vertici – di attuarle, e viceversa.
Nonostante gli apprezzabili (ma non realizzati) propositi, il disegno unitario appare comunque inquinato dalla mancanza di terzietà di chi è preposto a controllare l’adeguatezza delle politiche adottate. Alla presidenza del Consiglio spetterebbe la valutazione delle politiche elaborate dai ministeri, che a essa fanno capo. Ma la stessa presidenza, mediante il dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi, già sovraintende alle Air e alle Vir ministeriali, che sono anch’esse fasi del ciclo politico. E ancora alla presidenza, tramite il dipartimento della Funzione pubblica, competono attività inerenti alla valutazione dei risultati delle pubbliche amministrazioni, cioè dei soggetti che devono attuare le policy. La commistione fra chi sceglie e annuncia le politiche, chi le redige, chi le attua e chi le valuta rischia di minare la credibilità all’intero ciclo, specie se non vi è una piena trasparenza. La soluzione verso cui sembra orientato l’ordinamento nazionale, a differenza di quelli esteri, non appare pertanto la più idonea a rafforzare responsabilità e buona governance istituzionale.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.

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Ai lobbisti serve un registro

  1. L’attuazione e’ un fatto di volonta’. Dopo anni di lavoro mi sento di affermare che la volonta’ in Italia e’ quella “di non fare”. G. Tomasi di Lampedusa : fare vuol dire cambiare. G. Andreotti diceva che cambiare non vuol dire migliorare. Siamo levantini, forse il sole , il cibo, il clima, non e’ mai il momento giusto. Meglio aspettare.

  2. Marco Spampinato

    Manca l’indipendenza, costruita attraverso un disegno istituzionale efficace. Condivido lo spirito del suo articolo, ma non che ci siano stati miglioramenti. Le unità di valutazione centrali restano (a) meri uffici di staff ministeriali, ora vicini alla PdC; (b) non rispondono direttamente e autonomamente al Parlamento (quesiti posti da parlamentari e commissioni) e (c) non hanno alcuna forma di tutela dell’indipendenza della loro agenda da contingenze della politica di governo. Il passaggio della piccola unità di valutazione dal Ministero dell’Economia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con intermezzo al Ministero dello Sviluppo, mi sembra per queste e altre ragioni un passo indietro, non un miglioramento. Quanto alla valutazione al Senato, condivido che fosse un segnale di attenzione al problema, più che una soluzione. Manca un chiarimento complessivo. Il GAO, ad esempio, è struttura indipendente, e risponde a domande dei Parlamentari (Camera e Senato sono entrambi elettivi), per indagini conoscitive. In Italia c’è la Corte dei Conti, ci sono Commissioni Parlamentari d’Inchiesta, c’erano organismi come l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (ex L.”Merloni” 1994), ora assorbita dall’ANAC (e i dati sugli appalti sono spariti). Si rifiuta mi sembra l’idea che l’efficacia di una norma e/o di un programma di spesa sia valutata da soggetti indipendenti, e che Parlamento e Consigli siano luoghi per discutere periodicamente risultati oltre che premesse.

  3. Roberto De Vincenzi

    La valutazione delle politiche pubbliche è la stima degli effetti prodotti dall’attuazione delle stesse sui soggetti coinvolti (individui e non). Il “render conto” (il monitoraggio) della spesa o l’analisi d’impatto delle norme oppure ancora le ricadute sui sistemi sono importanti, ma, a mio parere, non alternativi alla stima degli effetti. Il monitoraggio, può rappresentare una precondizione della stima degli effetti (verifica l’esistenza di informazioni – microdati – coerenti e attendibili). Le analisi qualitative sull’impatto delle norme o sulle ricadute dell’attuazione sui sistemi di erogazione delle politiche pubbliche di certo arricchiscono la stima degli effetti dell’attuazione sui soggetti coinvolti, la quale, in ogni caso, utilizza metodi e tecniche non in possesso alla pubblica amministrazione. Infine, circa la terzietà, credo che l’aspetto dirimente (e poco trattato) sia quello della committenza (ha senso valutare l’attuazione del programma che nel contempo finanzia la valutazione?)

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