Quali sono i pro e i contro della democrazia diretta? E quali caratteristiche hanno i paesi che più la utilizzano? Per “spacchettare” senza danni un tema specifico dalla delega generale data agli eletti servono cittadini istruiti e stabilità politica.
Il ruolo dei referendum
Il referendum su Brexit e quello sulla riforma costituzionale Boschi-Renzi hanno riportato con forza l’attenzione del pubblico sugli strumenti di democrazia diretta, anche se ci si è più che altro concentrati sulla (scarsa) capacità da parte dei sondaggisti di prevedere quale posizione avrebbe vinto poi. Nel panorama politico italiano a ciò si aggiunge l’apprezzamento da parte del Movimento 5 Stelle per queste forme di decisione politica che scavalcano la tradizionale rappresentanza parlamentare.
Invece di focalizzarsi sugli esiti di referendum specifici – e sulla loro prevedibilità – vorrei formulare qualche riflessione su due questioni più generali. La prima è di carattere teorico: quali sono i benefici e costi di forme di democrazia diretta all’interno di democrazie largamente basate sul principio rappresentativo? La seconda questione è invece di stampo empirico: quali sono le caratteristiche dei paesi che utilizzano con più frequenza strumenti di democrazia diretta?
Partiamo dalla teoria: a mio parere il modo più incisivo per capire il ruolo dei referendum sta nel partire dalla constatazione che i rappresentanti dei cittadini eletti in assemblee legislative o all’esecutivo devono decidere su un numero molto ampio di argomenti, cercando possibilmente di interpretare la volontà degli elettori. Ma c’è un insuperabile divario tra il (singolo) voto per eleggere i propri rappresentanti e l’insieme pressoché sconfinato di argomenti da decidere: i cittadini potrebbero concentrarsi sul singolo tema ritenuto più importante degli altri e sulla base di esso decidere chi votare, mentre sarebbero privi di strumenti ulteriori per spingere il loro rappresentante ad adeguarsi alla loro volontà su tutti gli altri temi. È dunque possibile che i cittadini non ottengano dal loro rappresentante decisioni vicine alle loro preferenze sui temi meno importanti. Ciò è ancora più probabile se lobby ben organizzate sono capaci di spingere i politici in carica a prendere decisioni sui temi meno salienti – e meno coperti dai mass media – che sono vicine ai loro desideri e lontane da quelli dei cittadini non organizzati.
Ebbene, come brillantemente illustrato da Timothy Besley e Stephen Coate (qui), i referendum sono un modo naturale per “spacchettare” (issue unbundling) il singolo tema e toglierlo dalle competenze dei politici eletti: così i cittadini hanno un voto aggiuntivo per decidere.
Sotto questo profilo emerge chiaramente il bello della (democrazia) diretta. E dove sta il brutto? Il rischio insito nel meccanismo dei referendum è che non tutte le decisioni possano essere riassunte efficacemente da un manicheo sì/no, in quanto è necessario il lavoro graduale di un’assemblea parlamentare o di un consiglio dei ministri che arrivi all’elaborazione di una decisione più complessa. È vero che alla fine si arriva sempre a un sì o no rispetto al singolo provvedimento, ma questo può essere sistemato e meglio precisato nelle fasi precedenti. Non solo: aspetti emotivi – esacerbati da campagne elettorali virulente – rischiano di rendere più caotico l’esito di un referendum, mentre la saggezza di un’assemblea di politici eletti potrebbe far prevalere gli aspetti tecnici e razionali all’interno del processo di decisione. In tempi di populismo imperante, ciò può suonare sgradevole, ma il tema resta: vale più il beneficio dello spacchettamento oppure il costo delle decisioni emotive?
I paesi dove si può fare
Sotto il profilo empirico è stata invece studiata una questione più semplice, ma pur sempre interessante: quali sono le caratteristiche specifiche dei paesi che utilizzano più spesso strumenti di democrazia diretta? Nadia Fiorino e Roberto Ricciuti (qui) danno alcune risposte, analizzando dati per 87 paesi. Innanzi tutto, sono paesi con un reddito pro capite e un livello medio di istruzione più elevato a utilizzare più frequentemente i referendum. È difficile raggiungere conclusioni nette in assenza di un esperimento, ma si potrebbe meditare sull’ipotesi che, nella valutazione dei benefici dello spacchettamento contro i costi delle decisioni emotive, paesi più ricchi e più istruiti possono permettersi un utilizzo più intenso dei referendum in quanto l’eventualità di decisioni prese sull’onda caotica delle emozioni è più bassa.
I due autori mostrano anche come i paesi caratterizzati da un regime democratico più stabile e prolungato utilizzino sistematicamente di più i referendum (possono “permetterselo”?). Dall’altro lato, paesi con un indice più elevato di frazionalizzazione etnica utilizzano significativamente meno lo strumento referendario: si tratta forse di paesi che non possono permettersi conflitti diretti tra i vari gruppi e dunque scelgono più o meno razionalmente di utilizzare la tanto bistrattata mediazione parlamentare?
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Henri Schmit
La democrazia è per forza o per definizione rappresentativa. Che cos’è il referendum allora? Prima bisogna definirlo, eliminare plebisciti orchestrati dai governanti e considerare l’iniziativa popolare(legislativa e costituzionale, abrogativa e propositiva), seguita da referendum in caso di dissenso persistente fra proponenti e rappresentanti. Definito così il referendum (su iniziativa pop.) è un correttivo (straordinario) di controllo in mano al popolo sovrano (art. 1 Cost) per intervenire se ritiene che i rappresentanti eletti non rispettano il loro (libero) mandato e che gli altri organi di controllo, Presidenza della Repubblica e Corte Cost., non tutelano i diritti fondamentali (art. 1 più tutta la parte I) dei cittadini. Senza questo strumento si rischia di finire dove ci troviamo adesso, che i rappresentanti votino una legge elettorale (e una riforma cost.) che permette ai governanti di mantenersi al potere violando i diritti politici dei cittadini e che gli altri organi di controllo, nominati dai rappresentanti ora auto-nominati, diano ragione ai rappresentanti abusivi (e incapaci). In quel caso serve l’iniziativa popolare con referendum per interrompere il circolo vizioso. Trattandosi di uno strumento straordinario le condizioni d’esercizio devono essere severe, esigenti. L’hanno capito Locke nel 1690, Rousseau nel 1762, Condorcet nel 1793, gli Svizzeri nel 800, Carré del Malberg nel 1932, Mortati nel 1947. Di teoria del diritto costit. si tratta, non di altro.
nonnoFranco
Forse che la mancata emancipazione dei Ciitadini (*Il ministro della P.I. BACCELLI nel 1894 nel fare il programma sulla nuova “Riforma della Scuola così si esprimeva nel suo preambolo:… bisogna insegnare solo leggere e scrivere, bisogna istruire il popolo quanto basta, insegnare la storia con una sana impostazione nazionalistica, e ridurre tutte le scienze sotto una………unica materia di “nozioni varie”, senza nessuna precisa indicazione programmatica o di testi, lasciando spazio all’iniziativa del maestro e rivalutando il più nobile e antico insegnamento, quello dell’educazione domestica; e mettere da parte infine l’antidogmatismo, l’educazione al dubbio e alla critica, insomma far solo leggere e scrivere. Non devono pensare, altrimenti sono guai!”) dipende da loro?
Forse che la truffa del regolamento referendario(il 50% di chi può fare le leggi è basato sui voti espressi, mentre il 50% di chi vuole abrogarne una è basato su chi ha il diritto di votare)dipende dai Cittadini?
Forse che le elezioni “esacerbate da campagne elettorali virulente, possono produrre la saggezza di un’assemblea di politici eletti che potrebbe far prevalere gli aspetti tecnici e razionali all’interno del processo di decisione”?
Saluti, nonnoFranco
Henri Schmit
ADDENDUM: L’autore evoca un tema importante spesso mal interpretato. Non si tratta di democrazia diretta, ma di correttivi alla democrazia rappresentativa. L’iniziativa popolare è fatta a nome di una minoranza (parlamentare o non, trasversale, poco importa) rispetto alla maggioranza della rappresentanza. L’articolo citato di ricerca empirica degli studiosi italiani prova poco o nulla; non si capisce perché si richiamano a Tocqueville. Quello degli autori inglesi è più pertinente; le definizioni iniziali orientano il lavoro sul tema dell’iniziativa popolare (in opposizione a quella dei governanti) di cui il referendum è solo un possibile esito finale; il lavoro è lo stesso fuorviante; usa formule complesse per esprimere e provare concetti semplici che NON caratterizzano l’iniziativa popolare: la questione non è bundling (delegare la ricerca di soluzioni complesse per problemi in parte imprevedibili) o un-bundling (decidere direttamente questioni ‘semplici’) – ne decide sempre chi prende l’iniziativa – ma prevedere uno strumento che permetta a un determinato numero di cittadini (firme, tempi) di chiedere una soluzione precisa proposta e formulata da un comitato (comunque da far validare da un organo di controllo), da discutere con la rappresentanza eletta (serve una procedura) e da decidere CONTRO la maggioranza rappresentata tramite verdetto popolare (bisogna definire condizioni di quorum e di maggioranza), voce del potere sovrano, ma non per questo infallibile.
mauro
secondo me uno dei vulnus centrali dell’istituto referendario è che il cittadino abbia le competenze per decidere su temi sui quali nella migliore delle ipotesi non ha alcuna competenza e nella peggiore può essere teleguidato da social, media etc. Lo abbiamo visto sul referendum di novembre che tutto catalizzava fuorchè il tema centrale delle riforme. Ci sono temi sociali su cui i referendum hanno senso (divorzio e aborto … ma solo in società “pronte”) e altri su cui manca una totale logica (“abolizione del ministero dell’agricoltura …”). La democrazia rappresentativa serve proprio per delegare ed evitare la stasi (che dovrebbe fare rabbrividire qualunque riformista che poi vota sempre NO) che conosciamo bene e che si esplicita nella assemblee di condominio