Se i vantaggi di un ritorno alla lira si riducono alla possibilità di svalutare, si possono contrapporre i benefici prodotti da tassi di cambio fissi. Ma sono certi i costi di breve-medio periodo che l’economia italiana pagherebbe con l’uscita dall’euro.
Tre tesi sulla perdita di competitività
Che cosa penseremmo di una persona che, costretta per ragioni di salute a smettere di fumare, si lamentasse di aver preso peso e chiedesse continuamente di tornare alla sigaretta come sostituto della dieta? Una parte del paziente Italia è convinta che la malattia sia la perdita di competitività del paese rispetto ai principali partner commerciali. E che aver smesso di fumare, cioè essersi preclusa la possibilità di svalutare il cambio, sia la causa principale dei propri chili di troppo. Nell’immediato, certamente, tornare a fumare limita l’accumulo di peso. Ma ovviamente è una ricetta che causa danni di lungo termine se applicata sistematicamente.
Ci sono tre visioni diverse su che cosa abbia causato la perdita di competitività del paese dalla fine degli anni Novanta in poi.
La prima, quella tedesca, è che la riduzione dei tassi di interesse “regalata” dall’ingresso nell’euro sia stata sprecata in maggiore spesa pubblica e maggiore inflazione, causando un apprezzamento del tasso di cambio reale. La seconda visione, quella del cosiddetto campo no-euro, è che l’adozione stessa della moneta unica abbia direttamente causato il rallentamento della produttività. Ne segue che per “guarire”, cioè per recuperare competitività, sia necessario tornare alla flessibilità del cambio. Della tesi no-euro esiste anche una versione “soft”: tasso di cambio e produttività sono indipendenti fra loro; ma, comunque, svalutazioni del cambio nominale servono a compensare le perdite di competitività dovute al rallentamento della produttività. La terza visione si focalizza sul vero male dell’economia italiana, cioè l’inesorabile rallentamento della produttività del lavoro (e totale dei fattori) in atto oramai dalla seconda metà degli anni Novanta.
Tutte le posizioni hanno in comune lo stesso sintomo: rispetto alla propria produttività, l’economia italiana “costa troppo”. Le tre visioni, però, differiscono radicalmente riguardo alla soluzione del problema.
La visione tedesca chiede austerità per restringere la spesa e frenare l’inflazione. Quella no-euro invoca la libertà di poter mettere mano alla sigaretta (cioè svalutare all’occorrenza il cambio) per poter aggiustare il peso quando i chili in eccesso diventano troppi. La terza visione si concentra sull’origine della malattia: la asfittica crescita della produttività. Chiede cioè al paziente di cambiare il proprio stile di vita, per poter essere più in forma in futuro.
La spiegazione tedesca non è convincente. Attribuire la perdita di competitività reale del paese a un eccesso di inflazione post euro pare poco credibile, proprio in un periodo in cui l’Italia è riuscita a dimezzare il tasso di inflazione. Certamente, però, l’argomento tedesco ha qualche ragione nell’enfatizzare l’enorme occasione perduta dal paese per non aver tradotto in minore spesa e minori tasse i più ampi margini di bilancio resi possibili dalla riduzione dei tassi di interesse.
Le argomentazioni del campo no-euro, invece, appaiono fallaci sul piano della logica economica. La tesi principale è che un cambio reale inizialmente troppo apprezzato abbia strutturalmente compresso la domanda estera nel settore dei nostri beni commerciabili. A sua volta, la caduta persistente di domanda avrebbe causato la contrazione di produttività.
In primo luogo, il rallentamento della produttività (totale dei fattori e/o del lavoro) da metà anni Novanta in poi è un fenomeno generalizzato dei paesi che hanno aderito all’euro. È una sorta di teorema: per ogni paese che abbia fissato un cambio troppo apprezzato ci deve essere un paese che abbia fissato un cambio eccessivamente deprezzato. Come si spiega quindi che la produttività sia rallentata in tutti paesi che hanno aderito all’Eurozona?
Secondo, pur dando per scontato che una contrazione persistente della domanda sia una causa plausibile di una caduta della produttività (tesi scientificamente dubbia), rimane vero che nei primi anni Duemila, con l’ingresso nell’euro, l’Italia ha goduto di un simultaneo impulso di domanda positivo, causato dalla significativa caduta dei tassi di interesse. Difficile immaginare che l’effetto netto (presunto shock di domanda negativo dovuto al cambio troppo rivalutato, interagito con lo shock positivo di minori tassi di interesse) sia stato tale da spiegare il macroscopico rallentamento della produttività italiana.
Terzo, se la domanda stagnante causata da un cambio reale troppo apprezzato fosse la spiegazione del rallentamento della produttività, avremmo dovuto osservare il fenomeno solo nel settore dei beni commerciabili, cioè quelli che risentono della competitività con l’estero. Come si spiega allora che la caduta di produttività da metà anni Novanta in poi emerga in modo pervasivo anche nel settore dei beni non commerciabili?
Quarto, ammesso e non concesso che il tasso di cambio reale italiano sia stato inizialmente fissato in modo errato, come è possibile che i prezzi relativi italiani siano rimasti disallineati così a lungo, in contrasto con ogni evidenza empirica costruita negli anni da numerosi studi sul grado di rigidità dei prezzi dei beni e dei salari? Forse per le ragioni descritte dalla posizione tedesca (troppa spesa pubblica e quindi troppa inflazione). Ma allora il problema centrale italiano sarebbe quello della tendenza cronica e inefficiente del paese a generare inflazione (e spesa) in eccesso rispetto ai propri partner; non certo quello dell’aver rinunciato alla flessibilità del cambio nominale.
Raramente si sono sentiti esponenti del cosiddetto schieramento no-euro argomentare in modo soddisfacente a queste obiezioni. Ben altra cosa, rispetto ai punti precedenti, è lo storico dibattito sull’opportunità per un paese di aderire a un sistema di cambi flessibili rispetto a uno di cambi fissi. I benefici dei cambi flessibili sono ben noti. Se, ad esempio, in un paese, ma non in altri, cala improvvisamente la domanda, la possibilità di deprezzare il cambio permette di dare fiato alle esportazioni, mitigando l’impatto dello shock negativo asimmetrico. Rinunciare a questa flessibilità è certamente un costo. Molto spesso però, in economia, rinunciare a un beneficio non è necessariamente causa di minore benessere. Molto meno noti, e discussi, sono infatti i benefici dei cambi fissi.
I benefici dei cambi fissi
Il primo fondamentale beneficio dei cambi fissi è in termini di credibilità. Esattamente come un paziente che versi in anticipo l’intero costo annuale della palestra segnala la propria volontà di dimagrire con l’esercizio fisico, invece di farlo, a stento, continuando a fumare, così un paese che paghi oggi il costo di rinunciare alla flessibilità del cambio, e quindi alla possibilità di svalutare la moneta in periodi di crisi, segnala la propria volontà di astenersi dal creare inflazione futura in modo sistematico. Ciò riduce le aspettative di inflazione, che a loro volta comprimono l’inflazione corrente. Non a caso, con l’euro, l’inflazione media italiana si è ridotta in modo significativo rispetto ai decenni precedenti.
In secondo luogo, tassi di cambio fissi eradicano il problema della volatilità e dell’incertezza dei cambi, favorendo gli investimenti diretti esteri delle imprese.
Terzo, si dimentica spesso che la capacità di un deprezzamento del cambio nominale di stimolare le esportazioni è strutturalmente limitata. Il prezzo di un qualsiasi bene commerciabile (il vino italiano che le famiglie di New York acquistano nei loro supermercati) dipende in modo significativo da costi di servizi non-commerciabili: ad esempio, il salario che deve essere pagato al camionista per trasportare la bottiglia di vino dal porto di New York al supermercato. Il prezzo della bottiglia di vino è quindi solo in parte sensibile alle fluttuazioni del cambio e risentirebbe solo parzialmente di una svalutazione della “nuova lira” rispetto al dollaro.
Tutti questi argomenti possono facilmente far pendere la bilancia a favore di un sistema di cambi fissi rispetto a uno di cambi flessibili.
Si dice spesso che i cambi nominali fissi (tra valute) siano una camicia di forza che impedisce l’aggiustamento dei tassi di cambio reali (cioè tra panieri di beni tra paesi). L’evidenza empirica per la zona euro mostra invece che, nonostante la presunta camicia di forza, questi ultimi si muovono in modo efficiente, cioè perfettamente in linea con l’andamento della produttività relativa tra i paesi; e ciò avviene anche meglio rispetto ai paesi che sono rimasti al di fuori della moneta unica (ad esempio Svezia, Danimarca, Norvegia e Regno Unito). L’euro, quindi, non è affatto un ostacolo all’aggiustamento dei prezzi relativi tra paesi. Tanto vale, allora, tenersi i benefici dei cambi fissi. D’altronde, l’esperienza dei paesi emergenti, che sempre di più propendono in modo evidente per limitare le fluttuazioni dei loro tassi di cambio, suggerisce che le magnifiche sorti e progressive dei tassi di cambio flessibili, soprattutto per stati con istituzioni di politica monetaria e fiscale strutturalmente deboli, siano ben altro che scontate.
Il dibattito pro o contro l’euro, in Italia, sembra soffrire di una distorsione cognitiva. Se è logicamente fallace l’argomento secondo cui l’euro è la causa del male principale del paese (bassa produttività e quindi bassa crescita e bassi salari), l’argomento a favore di un ritorno alla lira si riduce alla riproposizione stantia del vecchio adagio sulla possibilità di svalutare per sostenere le esportazioni. Al vecchio adagio è però facile contrapporre argomenti uguali e contrari sui benefici, altrettanto importanti, dei tassi di cambio fissi.
In quest’ottica, i costi certi di breve-medio periodo che l’economia italiana pagherebbe con l’uscita dall’euro – rapida inflazione e, soprattutto, fuga di capitali con possibile crac del sistema bancario – appaiono francamente come un salto nel buio, che andrebbe illustrato al paese con la massima onestà intellettuale.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Paolo Gelain
Ottimo articolo come sempre. Ma non sarebbe anche il caso di scriverne anche uno sulle cause della produttivitá stagnante e sulle potiche da implementare per risolvere il problema? Avremmo cosí un argomento in piú e maggior chiarezza nel dibattito.
Alessandro
Magari cercando di spiegare come mai la produttività cala dalla seconda metà degli anni 90.
stefano8
Le evidenze dell’articolo sono condivise.
Inoltre il debito pubblico è finanziato con titoli denominati in euro.
Rimanere nei cambi fissi per evitare di rifinanziare il debito pubblico in nuova valuta, flessibile e competitiva perché si svaluta, mi sembra il beneficio. Evitare questo passaggio non superabile ci riporta al vero obiettivo di migliorare la produttività del paese.
Michele
In realtà non è vero che l’economia italiana costa troppo rispetto alla propria produttività. Il problema è che produce beni di valore aggiunto troppo basso rispetto al costo totale dei fattori. Inseguendo la chimera del lavoro a basso costo e super flessibile si sono persi gli altri elementi che determinano la competitività. Tra i più danneggiati ci sono le imprese stesse che (complici ed entusiaste) si sono viste segare l’erba sotto i piedi: minore domanda, minore qualificazione dei dipendenti, minore innovazione, minore produttività, minore competitività. In poche parole: il declino del paese, sempre più lontano dall’Europa.
Francesco Betti
Professore una domanda. Poichè il paese importatore acquista anche la moneta del paese che produce il prodotto desiderato il risultato è che paesi che hanno un surplus commerciale vedranno progressivamente rivalutate le loro divise provocando, da una parte, una progressiva minor concorrenzialità dei prodotti dei paesi storicamente esportatori e, dall’altra, un aumento di appetibilità dei beni prodotti dai paesi importatori. Questo benefico “effetto pendolo” è praticamente bloccato con i cambi fissi o con la moneta comune. Se ho capito bene questa è la tesi di Bagnai, su molti altri aspetti molto poco convincente, ma su questa…..lei come risponderebbe?
Alessandro
Infatti. Come risponderebbe professore? Sembra che alla Germania la svalutazione competittiva abbia fatto bene. o no?
Paperinik
Ma insomma è elementare: se svaluta la Germania è buono è giusto e le fa pure bene. Se svalutiamo noi no. Alcuni animali della fattoria sono più eguali degli altri 🙂
Savino
Come dice Prodi, non bisogna confondere la parola Euro con la parola crisi.
E, quindi, la gente comune non deve confondere le questioni di tasso e di cambio con la politica dei redditi e con quella dei salari.
Solo un incremento de livello di produttività ed una più equa distribuzione del lavoro e dei redditi tra ceti e generazioni possono dare salari più alti e con potere d’acquisto maggiore, facendo scemare l’effetto ottico di “evaporazione” del peso della busta paga in Euro.
Roberto
Ottimo articolo. Mi chiedo perchè nel dibattito non si citi mai l’effetto che il deprezzamento del cambio, tanto invocato da alcuni, avrebbe sui consumi degli italiani. Si dimentica sempre un pezzo della storia: è vero che dopo un deprezzamento si esporta di più (con alcuni caveat), ma è anche vero che quel che si importa costa di più e se l’elasticità del prezzo di questi prodotti (petrolio, ma non solo, non mi pare che l’Italia produca telefonini o computer) è bassa, l’effetto potrebbe essere quello di spiazzare anche i consumi di prodotti nazionali o comunque di ridurre il potere di acquisto degli italiani.
Paperinik
Al contrario. Il deprezzamento del cambio frena l’acquisto di prodotti esteri (meno Volkswagen, BMW, lavatrici tedesche) e rilancia l’acquisto di prodotti italiani il cui prezzo rimane pressapoco identico (più auto prodotte a Mirafiori e Pomigliano, più Indesit) portando più soldi in tasca agli operai italiani, soldi che a loro volta verrano spesi in preferenza in prodotti italiani – perché anche se siamo esterofili e ora che possiamo compriamo tedesco perché fa fine, quando non potremo più non compreremo più.
Riguardo al prezzo del petrolio e dell’energia, il 75% sono tasse (che potranno eventualmente essere abbassate) e comunque abbiamo visto senza shock alcuno (e senza analoghe variazioni sul prezzo della benzina) il petrolio a $120 come a $40. Senza parlare del fatto che il differenziale accumulato con la germania è circa del 20% e questo sarà il massimo deprezzamento del cambio. Mentre l’Euro si è svalutato da $1.50/€ a $1.05/€ cioè oltre il 33% e anche qui non ci siamo nemmeno accorti di variazioni sull’energia o sulle materie prime. Non a caso petrolio e materie prime in inglese sono definite “commodities”: e diciamo di più: non solo sono poco costose e incidono poco sul prezzo finale dei prodotti (in una nazione industriale ed evoluta come la nostra), ma spesso le loro quotazioni seguono la domanda – ovvero se l’Italia, grande consumatore, si potrà permettere di pagare un po’ meno, ebbene costeranno un po’ meno.
Saluti
Visto che siamo in vena di paragoni, rimanere nell’Euro e continuare con la libertà di movimento del capitale di Maastricht è come tentare di curare il cancro con gli steroidi
Intellettuale post-verità e fake news
Un po’ come ”se si vota Brexit, sarà recessione già nel 2016”. 2017, di recessione manco l’ombra tanto che Juncker e Verhofstadt sono nel panico per se la GB sta bene senza l’UE, c’è la conferma che quest’ultima non serve a nulla.
Paolo Gelain
https://www.bloomberg.com/graphics/2017-brexit-bankers/
LAURA DI LUCIA
Cit: “Il primo fondamentale beneficio dei cambi fissi è in termini di credibilità. Esattamente come un paziente che versi in anticipo l’intero costo annuale della palestra segnala la propria volontà di dimagrire con l’esercizio fisico”.
In pratica, Lei stesso, ammette che i cambi fissi avvantaggino solo il creditore perché non tengono conto di possibili avversità, indipendenti dalla volontà del povero obeso, che gli impediscano di proseguire le attività in palestra. L’importante è pagare, il resto viene dopo. Anzi, dal momento che l’obeso ha pagato, “chissene” importa della sua salute. Così precipita la Sua credibilità. Complimenti, ora può iniziare a scavare 🙂
fabrizio
Gentile prof, mi chiedo se sia possibile avere qualche dato o lavoro di ricerca sulla questione dei prezzi relativi.
In generale condivido tutto l’impianto del discorso. Quello che mi pare essere analizzato con superficialità e che meriterebbe – forse – un post a parte è il punto quattro. L’Italia è un Paese rigido?
Ad esempio: è da un po’ di tempo che l’inflazione in Italia cresce meno di quella tedesca. Questo dovrebbe essere un riaggiustamento dei prezzi relativi.
Ma c’è voluta una crisi!
In generale, cosa manca alla nostra economia affiché questa possa “riaggiustarsi” senza una profonda crisi?
I problemi relativi alla misallocation dei fattori produttivi, spiegano l’incapacità (da me presunta) del sistema italia di aggiustare i propri prezzi relativi in modo normale, automatico? Che effetto ha la cassa integrazione in tutto questo? E le banche esposte troppo nel settore dei beni commercializzabili?
Inoltre, la mancata concorrenza in parti grandi del settore dei servizi – ancora – spiega questa incapacità?
La direttiva Bolkestein andava nella giusta direzione?
bob
io la ragione della nostra crisi la vedo più culturale che finanziaria/ strutturale. In pratica è un atteggiamento culturale /politico che innesca poi le altre due. In questo vuoto politico e di cultura la strada migliore per il piccoli politici è crearsi un “alibi” un “nemico” su cui scaricare i propri evidenti i limiti.
Vero che bisogna camminare con la testa rivolta al futuro e non rivolta all’ indietro….ma lei mi insegna che i percorsi della Storia non possono essere dimenticati fatte le debite proporzioni di periodi e tempi diversi. Sintetizzo per meglio esprimere il mio punto di vista. L’ Italia doveva entrare in Europa con un forte sistema-Paese e non con un localismo e un regionalismo becero oltre che ridicolo e dannoso. Ci siamo distratti con il ” piccolo è bello” facendo di fatto sparire grandi progetti industriali e quindi Grandi gruppi ( penso all’ auto alla chimica all’ elettronica etc). Ci siamo distratti con beceri localismi facendo crescere le percentuali di gente non diplomata e non laureata e quindi di fatto perdendo il treno della rete e di Internet ( siamo un Paese che non utilizza intenet neanche per rispondere ad una e- mail). Ci siamo distratti perdendo di vista la meritocrazia per creare di fatto clan localistici deleteri ( la follia del titolo V) …potrei seguitare all’ infinito. Abbiamo sprecato tempo e risorse. Siamo un Paese in ritardo di 30 anni rispetto all’ Europa e al mondo
Marcello Romagnoli
L’economia italiana non “costa troppo” a causa del costo del lavoro, casomai per la scarsa propensione all’investimento in prodotti/processi da parte degli imprenditori. Tutto ciò per buone e meno buone ragioni. Tra le buone ragioni una è questa: perchè un imprenditore dovrebbe investire se la gente non ha i soldi da spendere per comprare ovvero, temendo l’attuale congiuntura economica, li tiene ben stretti?
Lei parla di credibilità e cambi fissi….beh la politica della svalutazione è tranquillamente applicata da tutti i paesi come Cina, USA, UK ecc. L’euro stesso è stato svalutato di parecchio rispetto al dollaro negli ultimi tempi, ma la sua credibilità è sempre bassa a causa della sua evidente crisi economica, la sua pochezza politica, non per la solidità della sua moneta. Proprio la svalutazione subita dall’euro è la causa della piccola boccata di ossigeno che abbiamo avuto in quest mesi, proprio perchè la svalutazione facilita le esportazioni verso i paesi che non hanno la stessa moneta. Ovviamente questo vantaggio non è stato possibile verso i paesi europei con euro che rappresentano un importante direzione del nostro export.
Infine Lei dimentica il fatto più importante: non c’è sovranità vera senza quella monetaria e questo semplice fatto manda all’aria tutte le sue analisi, buone o non buone che siano.
Marcomassimo
Ottimo articolo e scientificamente impostato; però a volte la risposta non si trova tanto con l’analisi scientifica quanto l’intuizione storica e sociale; noi non siamo tedeschi ed caricarci di una moneta pesante come un Marco ci ha piegato semplicemente le spalle per il peso; noi non siamo una antropologia a fondamento illuminista e razionalista come nel nord europa; siamo un paese mediterraneo a solida radice culturale irrazionalista; non abbiamo grandi aziende, non abbiamo la trendenza a raccoglierci sotto lunghe e complesse catene gerarchiche in modo efficiente; abbiamo scarsa tendenza a fare rete; produciamo beni a medio tenore tecnologico ed elevato tenore di creatività in aziende spesso a patrimonio familiare.
Per tutte queste ragioni l’euro è stato una scelta suicida dettata dalla follia miope apprendisti stregoni che pretendono di distorcere una antropologia tramite mezzi finanziari; deve essere la moneta che si adatta alla antropolgia e non viceversa come è vero che deve essere la sella ad adattarsi al cavallo e non il cavallo alla sella; adesso abbiamo un cavallo storpio con la schiena ulcerata che dovrà tenersi soffrendo la sella strampalata che gli hanno messo sopra.
Henri Schmit
Interessante e convincente (spiegazione 3 piuttosto che 1). Un argomento determinante contro la teoria 2 è la prevedibilità della redditività dell’investimento estero, in un’economia comunque aperta, non auto-sufficiente. Basta guardare l’UK, con una produttività già inferiore a quelle di D e F, e un governo che non perseguirà una politica di un cambio debole, rischia lo stesso di perdere numerosi investimenti dall’estero. Se poi aggiungiamo i dazi legati ad una hard Brexit il disastro è pressoché certo. E rispetto all’Italia si tratta comunque di un paese con una storia di politica monetaria stabile. D’accordo quasi tutti, bisogna specificare su quali azioni correttive insistere per migliorare la competitività. Qualcuno menziona dati antropologici, un altro fattori culturali. Bisogna indicare con quali misure concrete si riesce a migliorare rapidamente la produttività.
Paperinik
Sei abbastanza comico, l’UK è importatore netto per 100mld di euro (ci danno da mangiare!). Abbiamo tutto da perdere. Se siamo così stupidi da metterci dei dazi essi per prima cosa li reciprocheranno (se tu tassi al 5% le mie Rover io tasso al 5% del tue BMW) e financo smetteranno di importare da noi (non c’è niente che noi facciamo che non possano produrre da soli (lo stanno già incominciando a fare = più lavoro in UK) e che non si possa importare da Giappone, USA, Corea del Sud, Brasile, Cina ecc.) e noi avremo 100mld l’anno di merce che non sapremo a chi vendere (ai marziani?).
Senza contare poi che non avendo dazi ormai nemmeno con la “democraticissima” Turchia di Erdogan la vedo dura giustificare dazi con l’UK (quei bambini non vogliono più giocare con noi e allora li puniamo? che infantilismo).
In quanto alla cosiddetta “produttività” forse che la Germania ha migliorato la produttività? No, i dati anzi dicono che è peggiorata. Ma hanno bloccato da 20 anni la rivalutazione del Marco, e le più recenti analisi – e sono dati dell’Unione, non di detrattori – dicono che (mentre ovviamente il cambio nominale è 1:1) il cambio reale vs. Italia ormai è svalutato del 20% e vs. Francia del 15%. Ovvero la Germania ha, banalmente, svalutato.
Ora loro svalutano e noi dobbiamo diventare “produttivi”? Ma dai.
franco
A fronte di tutte le chiacchiere immesse nell’articolo, resta la verità dei fatti: prima dell’introduzione dell’euro eravamo i primi in europa. Che lei sia della Bocconi, articolare in senso opposto ai dati dimostra che o mente (ipotesi più che probabile) o racconta una favola propagandistica. Possibile che non tocchi il tasto Bce . Lo sa che i dati oocse smentiscono quel che dice? Peggare l’euro sul marco è stata una autentica stupidaggine. Resta poi il fatto che in termini pratici la Ue nasce solo che dopo la Germania venne rassicurata sul fatto che l’Italia ne avrebbe fatto parte. Se noi non fossimo entrati, la Germania non avrebbe aderito.
Il marco ha storicamente avuto una rivalutazione su tutte le monete del mondo, noi, come la Corea, come il Giappone, pur svalutando eravamo al top.
Eravamo la quarta /quinta potenza mondiale… Se lo ricorda, li conosce i dati?
Per essere top economista della Boccon, ha dato dimostrazione che quelli come lei, scusi se lo ridico, applicano una teoria economica pret-a-porter, una teoria che impedisce di prevedere come andranno le cose. Ricordo che loa crisi del 2007, non era prevista da quelli come lei, nonostante ciò, mi tocca leggere la sua diagnosi ridicola. Se non sa come andrà, se è nel porto delle nebbie, che senso ha fare pre-visioni? La lice in fondo al tunnel di Monti… anche lei? Che tristezza…
Gianluca
Strana la logica di certi economisti che considerano gli IDE un beneficio per il paese a prescindere.
Strano poi come il cambio fisso venga considerato un vantaggio quando ormai è conclamato da tutti i numeri disponibili che i paesi con la più bassa crescita economica sono quelli che hanno adottato il cambio fisso.
La moneta unica è diventata un dogma, un feticcio da adorare e difendere ad ogni costo. Di scientifico in queste prese di posizione non c’è assolutamente nulla.
Paperinik
Miscredente! Ci sono altissimi benefici nel cambio fisso! Il Giappone sta chiedendo l’adesione all’Euro, e anche la Polonia, la Turchia, la Corea del Sud, la Cina, gli USA vogliono assolutamente entrare e beneficiare della grande moneta stabile per comperare più Volkswagen, più lavatrici e per chiudere le loro fabbriche fonte di inquinamento e lasciare solo più aperte quelle tedesche.
Leonardo Sadini
Cito dal post: “Attribuire la perdita di competitività reale del paese a un eccesso di inflazione post euro pare poco credibile, proprio in un periodo in cui l’Italia è riuscita a dimezzare il tasso di inflazione”. Ebbene, è verissimo che i tassi di inflazione sono scesi in tutta l’Eurozona durante gli anni dell’euro, ma non è stata raggiunta la CONVERGENZA (cioè non si sono pienamente allineati), e i relativi differenziali, in assenza della possibilità di adeguare i tassi di cambio tra differenti valute, hanno originato perdite di competitività dei paesi periferici rispetto ai paesi “centrali”. In questi paesi abbiamo visto l’enorme indebitamento privato di famiglie e aziende che poi è stato trasferito in modo consistente sulle finanze pubbliche. Ed è evidenza conclamata che questo indebitamento incontrollato deriva da un effetto secondario dell’euro, cioè la perdita dell’elemento del rischio di cambio nell’investimento estero, che ha illuso i mercati dandoci una presunta “credibilità”.
A chi volesse approfondire consiglio la lettura del blog di Bagnai.
Giuseppe Bresin
pare che molti si siano dimenticati, o non abbiano fatto abbastanza attenzione, al fatto che molti dei vantaggi che i cambi fissi danno vanno poi sfruttati da politiche economiche adatte, cosa che il nostro illuminatissimo B. e per brevi tratti la sinistra non han mai fatto, dato che erano troppo impegnati a fare propaganda e promuovere iniziative solo per ottenere maggiori voti alle seguenti elezioni…