Le diseguaglianze in tema di salute esistono in tutti i paesi, sviluppati e non, con o senza sistema sanitario universale. Ma quali fattori le determinano? Quanto conta il reddito e quanto la cultura? Se ne discuterà al Festival dell’Economia di Trento.
Differenze fra paesi
Un buon punto di partenza per parlare di “salute disuguale”, come si farà fra qualche giorno al Festival dell’Economia di Trento, è riconoscere che le diseguaglianze nell’ambito della salute esistono in tutti i paesi, sviluppati e non, con un sistema sanitario universale e non. Sono differenze di grado (quanta diseguaglianza caratterizza i diversi paesi) e vanno valutate considerando da un lato i diversi concetti e misure di salute (quella percepita dagli individui e quella determinata in modo più oggettivo da un medico); dall’altro i diversi servizi (le visite a un medico di base o i servizi ospedalieri o una visita odontoiatrica).
Il confronto viene fatto in genere a parità di bisogno, sulla base dell’idea che individui con eguale bisogno dovrebbero avere la stessa salute, dovrebbero avere le stesse opportunità di accedere a determinati servizi sanitari, dovrebbero usarli allo stesso modo. E il bisogno dipende dall’età, dal sesso, dal livello di istruzione o dall’occupazione delle persone, quindi variabili che in qualche modo sono “circostanze” al di fuori della sfera di controllo dell’individuo. La letteratura economica mostra che le persone più povere sono anche più svantaggiate sia in termini di salute (stanno peggio di individui più ricchi e si ammalano di più) sia in termini di accesso ai servizi (sono meno in grado di utilizzarli, vi accedono generalmente meno, specie a quelli di prevenzione; e questo probabilmente contribuisce a peggiorare le diseguaglianze osservate nella salute).
Qualche dato per inquadrare il problema. Esistono differenze tra i paesi del mondo e quelle nella salute sono molto ampie. Per esempio, i dati sulla mortalità infantile – un indicatore molto utilizzato per confrontare la salute di paesi diversi – mostrano i progressi enormi in Europa, frutto degli investimenti nella sanità pubblica e nella modernizzazione dei paesi. Il World Development Report più recente evidenzia il caso del Portogallo, passato da quasi 150 bambini sotto i cinque anni morti ogni mille nati vivi nel 1955 a un valore intorno a tre. La Sierra Leone e il Mali si trovano oggi laddove il Portogallo era alla fine degli anni Cinquanta. L’India e il Botswana hanno un ritardo di quarant’anni; la Romania di venti.
Ma i paesi non sono tutti uguali al loro interno: per ciascuno c’è un “nord” e un “sud”. Anche in Italia i progressi sul fronte della mortalità infantile sono stati sostanziali, ma restano differenze persistenti fra regioni. Per utilizzare la retorica della World Bank, possiamo guardare alla figura 1, dalla quale scopriamo che la Calabria – una delle regioni più in difficoltà nel rispettare i livelli essenziali di assistenza – si trova oggi dove si trovava il Veneto circa vent’anni fa. E non è finita qui, perché anche dentro le regioni ci sono i “nord” e i “sud”, le aree urbane accanto alle “aree interne”, meno popolate e con maggiori difficoltà di accesso ai servizi. La figura 2 consente di vedere come la mortalità infantile si differenzi per provincia e permette di scoprire come – all’interno della Calabria – Catanzaro e Vibo Valentia si discostino in meglio dalle altre tre province.
I fattori della disuguaglianza
Come si spiega questa variabilità, soprattutto nel nostro paese? Quali sono i fattori e le politiche che hanno esacerbato o ridotto le differenze? Si possono certamente individuare fattori micro: l’informazione rilevante (per esempio sulla qualità dei servizi) non è facilmente accessibile a tutti. Così come è importante riconoscere che non sempre mettere a disposizione l’informazione è sufficiente: occorre poi saperla usare. Non meno importante è il reddito, anche in presenza di un sistema pubblico di tutela della salute: possono infatti esistere costi indiretti di accesso ai servizi che condizionano la domanda e, a cascata, possono avere effetti sulla salute. Tra i fattori macro, alzi la mano chi non ha pensato al processo di decentramento che ha caratterizzato il nostro paese tra la fine e l’inizio del millennio. La ricerca economica su questi temi è ancora aperta, ma le prime evidenze cominciano ad affiorare e si aggiungono a quelle prodotte sino qui principalmente dagli epidemiologi. Un dato fra i tanti su cui riflettere: per le donne sotto i 40 anni tra gli anni Novanta e gli anni Duemila si registra una crescita nell’uso dello screening mammografico senza sintomi più marcata nelle regioni del Nord rispetto a quelle del Sud. La differenza nei tassi di crescita però è sostanzialmente nulla se si guarda alle donne più istruite, mentre si amplia per le meno istruite. Perché le donne meno istruite, presumibilmente più povere, del Mezzogiorno sono restate indietro? È un problema di reddito o della incapacità di valutare l’importanza della prevenzione? E quanto contano le politiche regionali? Che cosa è stato fatto nelle diverse aree del paese? Ne parleremo a Trento, tra qualche giorno.
Figura 1 – Numero di bambini morti di età inferiore a 1 anno per 10mila nati vivi
Figura 2 – Numero di bambini morti di età inferiore a 1 anno per 10mila nati vivi nel 2013 (dati per province)
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